Martedi, 14/04/2020 - “Non capisco perché la cosiddetta ‘vecchiaia’ debba essere vista come un tutto omogeneo, condiviso, compatto. Forse che la giovinezza è stato un corpus omogeneo? Tutte noi abbiamo vissuto la stessa giovinezza? Tutte noi avevamo vent’anni nello stesso modo?.... E perché allora dovrebbe essere uguale anche la permanenza nel pianeta vecchiaia? No, non è affatto uguale, ci sono molte vecchiaie, che possono coesistere non solo tra le une e le altre, ma persino nella stessa persona...”. Marina Piazza ci rende partecipi del suo personale viaggio dentro la fase dell’età matura e, mentre la osserva, ce la descrive come solo una studiosa può fare. “La vita lunga delle donne” (Solferino, 2019) è un libro che cattura per il sapiente dosaggio tra narrazione intima e rigore metodologico. Il risultato è un’analisi della “terza età”, attenta e coraggiosa, che l’autrice compie a partire da sé. Una disamina concepita e scritta da femminista - coerentemente con la vita che ha vissuto, i ruoli che ha ricoperto e le battaglie che ha combattuto - che esprime il bisogno di spiegare la vecchiaia delle donne della sua generazione. “Credo si possa dire che il bisogno di fermarsi a riflettere insieme sia specifico di questa generazione, fondamentalmente per l’esperienza del femminismo e dell’autocoscienza, ma anche perché abbiamo vissuto sulla nostra pelle la progressiva apertura dei mondi della vita. Che ha dischiuso maggiori possibilità di felicità e maggiori possibilità di infelicità”. Non di una unica esperienza si tratta, quindi, ma delle “molte vecchiaie” possibili che si prestano ad essere raccontate come di molteplici viaggi che non si “contrappongono” anche se “densi di imprevisti”.
Parla di “resistenza” e di “stupore” di fronte al passare degli anni e cerca definizioni appropriate. “Nessuno, in fondo, si aspetta di arrivare a questa soglia. Felice di invecchiare? La fortuna di invecchiare? Non mi sembrano parole adeguate. Forse libere di invecchiare?”
Il tema è di attualità in una società che, mal sopportando il peso degli anziani, prova a cancellare i segni della vecchiaia, soprattutto nelle donne. La parola stessa è censurata e si preferisce sostituirla con eleganti quanto ipocriti sinonimi “… ageé, tardo-adulte, post-adulte, senior…”. D’altra parte non è ininfluente il fatto che la vecchiaia sia diventata “un fenomeno di massa” nelle società occidentali con un numero di anziani mai visto in precedenza come è ampiamente certificato dalle statistiche.
Dopo il preludio, Marina Piazza prende in esame con meticolosità e leggerezza i molteplici aspetti di questa fase della vita, a partire dalla determinazione del suo inizio. “La vecchiaia vera, quella ‘tua’, è un dato soggettivo” che non ha nulla a che vedere con le distinzioni convenzionali: dei “giovani vecchi”, 65/75, della media vecchiaia, 75/85, e della vecchia vecchiaia (dopo 85). Il passaggio, spiega l’autrice, implica una fase inquieta che “richiede un ‘visto di transito’ ... per dare a se stessi il consenso”. La chiave di lettura, in cui torna in campo l’anima ribelle, è quella di pensare all’invecchiamento “come parte del corso della vita e non come la fase residuale della vita. Pensando a vivere, non a sopravvivere”. Ne consegue il rifiuto di un invecchiamento “attivo” - definizione “consumistica” e “superficiale” - a favore di un invecchiamento “creativo” alimentato dalla “curiosità, dall’ironia e dal perdurare dell’amore per la vita”.
Molto interessante il capitolo dedicato ai vecchi e nuovi stereotipi, che imprigionano - soprattutto le donne - in cliché improbabili. “Si impone l’accettazione delle diversità; direi di più: la comprensione delle diversità. E, direi di più: la benevola tolleranza delle diversità. Che è un modo per sfuggire alla rigidità degli stereotipi, a quello che tolgono ciò che di più vivo abbiamo...”.
Tra una vecchiaia come tempo della restituzione o del deterioramento, Piazza cerca una terza via “immaginando un’età tutta da inventare.. Tutto affinché non diventi una mera sopravvivenza”.
Nel bilancio tra perdite e guadagni mette in relazione la decadenza del corpo e il “senso di liberazione”, cosa che può rendere la vecchiaia “interessante”, a patto “di riuscire a scovare ciò che può essere interessante”: nelle relazioni o, perché no, nel sesso, ancora considerato un tabù per gli anziani.
Poi ci sono le paure da affrontare: dei cedimenti del corpo e della mente, le fragilità e l’incertezza.
Il penultimo capitolo, intitolato “Morire”, avrebbe preferito “fosse una pagina bianca, perché non ho voluto e non voglio parlare della morte, ho voluto e voglio in questo libro parlare della vita” ma non può venire meno all’impegno preso, anche perché, osserva, “noi siamo la generazione delle donne che hanno ripensato a tutte le tappe importanti della loro vita, adesso ci tocca pensare anche a come invecchiare e morire”. Fedele al suo metodo di ricercatrice, l’autrice delle “Ragazze di cinquant’anni” (1999) ha costruito questo bel saggio raccogliendo per anni materiali, leggendo molto e soprattutto ascoltando le esperienze, le riflessioni e i sentimenti di tante donne della sua generazione. “Non volevo parlare di tutte le donne, volevo parlare di alcune donne che ho incontrato e che conosco” precisa nell’ultimo capitolo attuando “un rovesciamento dello sguardo, un osservare la vecchiaia delle donne dall’interno, sulla base delle loro esperienze e della interpretazione che loro stesse ne danno”. Ne è scaturito un “racconto collettivo” che accoglie le complessità e lascia aperte le contraddizioni perché, spiega, “abbiamo avuto vite e complesse e continuiamo ad averle anche nella vecchiaia”.
È proprio questo il fascino del saggio che Marina Piazza ci propone come frutto della sua maturità umana e professionale, regalandoci in conclusione una possibile sintesi del senso dell’esserci: “ho voluto dar conto di quello che possa significare cercare di imparare anche a questa età, sbagliando, disimparando, ritentando, ma vivendo”.
MARINA PIAZZA
La vita lunga delle donne
Ed Solferino, pagg 220, euro 16,00
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