Intervista all'artista che usa i muri delle città come 'forma di comunicazione diretta' perchè 'un’immagine può parlare più di mille parole'
Che siano murales, graffiti o poster, le opere di LAIKA hanno la caratteristica di proporsi in spazi urbani, quale espressione di quella che è definita street art e che vuole sempre richiamare l'attenzione su questioni di grande attualità.
Laika, prima di tutto ci spiega l'origine di questo nome e da quanti anni lavora come street artist... ho detto 'lavora', è corretto? Nel senso che è il suo lavoro?
Il nome “Laika” viene dalla celebre cagnetta sovietica, il primo essere vivente ad andare nello spazio. Ho scelto la sua data di nascita, il 1954, e non quella della missione che la portò alla morte nel 1957. Lo spazio, sin dall’inizio, è stato un elemento simbolico centrale per me: puntare allo spazio significa avere ambizione, spingersi sempre più lontano. E così voglio fare con i miei messaggi di lotta per i diritti umani, portarli il più lontano possibile. Dallo spazio si ha una visione d’insieme, e questo è fondamentale per affrontare ogni singola tematica con consapevolezza. Il progetto è nato per gioco nel 2019 insieme al mio team, che mi supporta ancora oggi. All'inizio si trattava di sticker ironici ma con un forte contenuto politico. Il passaggio dai semplici adesivi ai poster è stato naturale: l’attacchinaggio era già parte della nostra vita prima di Laika. È una forma di comunicazione diretta, legata alla propaganda politica, che continua a resistere anche nell’era dei social.
Dal 2020-2021 Laika è diventato il mio lavoro a tempo pieno. Per portare avanti questo progetto in modo serio e incisivo, ho capito che serviva dedizione totale. Alcuni criticano il fatto che sia un lavoro, ma dietro c’è una piccola struttura che si occupa di organizzare blitz, performance, e diffondere i messaggi. Ho unito arte e attivismo: è la mia professione, sì, ma anche la mia missione politica. Ogni tanto vorrei dedicarmi ad opere più leggere… ma i tempi non lo permettono.
L'altra curiosità riguarda la scelta dell'anonimato...
L’anonimato è vitale per il progetto Laika. Mi permette di avere una vita normale quando non indosso la maschera e di affrontare qualsiasi tema senza il timore di minacce o ritorsioni. Durante la pandemia, ad esempio, mi ha permesso di arrivare fino in Bosnia, nonostante le zone rosse.
La maschera toglie attenzione dalla mia persona e la sposta sul messaggio. Laika è un’idea, non un volto. È ciò che lascio sui muri, è ciò che vedete nei poster, nei murales.
Quando e perché ha deciso di esprimere attraverso la street art una forma di impegno civile?
È successo proprio nella fase iniziale, quella più “giocosa”. La svolta è arrivata con l’opera dedicata a Daniele De Rossi. Mi ha fatto capire quanto può essere potente un semplice foglio incollato nel posto giusto. Un’immagine può parlare più di mille parole. Da lì ho capito che avrei potuto usare questo linguaggio per esprimere le mie posizioni su diritti civili, sociali e umani. Così è stato.
La velocità è una delle sue caratteristiche: riesce a fissare sui muri, soprattutto a Roma, dei dipinti bellissimi ed estremamente efficaci nei messaggi che affida loro. Come riesce?
Purtroppo le opere più incisive sono spesso quelle “cotte e mangiate”, legate all’attualità più urgente. Serve velocità in tutto: scelta del messaggio, scrematura del contenuto, produzione dell’immagine, stampa, e attacchinaggio. Lavoro giorno e notte, letteralmente, finché la “missione” non è compiuta. Tutto avviene in meno di 24 ore. Certo, preferisco le opere più meditate o quelle legate ai blitz “in trasferta”, che richiedono anche una complessa logistica.
Che riscontri ha, di solito, dopo i dipinti che realizza?
So di essere un’artista divisiv*. Ogni volta che realizzo un’opera, so che susciterà un dibattito. Tantissime persone si emozionano, si ispirano, la usano come simbolo per le proprie battaglie politiche o sociali. Altre, invece, mi odiano e mi insultano. Quando si tratta di fascisti, razzisti, maschilisti, omofobi… beh, mi sento davvero orgoglios* di quello che faccio.
C'è qualche opera, in particolare, che le ha dato soddisfazione o che ha particolarmente amato?
Zapatos Rojos - la donna afghana con le scarpe rosse - è una delle mie preferite. Il messaggio è potente, contro il regime talebano e contro il patriarcato in generale. E poi ha un’estetica che amo: cosa rara per me. Ci sono anche le opere che amo per il loro impatto sociale, o per il “viaggio” che mi hanno portato a fare: "Life is not a game", il blitz in Bosnia per sostenere i migranti della rotta balcanica; "Vivas Nos Queremos", un poster contro i femminicidi affisso nella roccaforte dei narcos a Ciudad Juarez, in Messico; il murale dedicato a Michela Murgia… e molte altre.
Oltre a Roma, dove ha lavorato o dove ha esposto i suoi lavori?
Ho affisso/dipinto opere in varie città italiane ed europee, ma anche in Messico e negli Stati Uniti, dove ho realizzato il progetto States of Injustice: una critica a un Paese che continua a definirsi “la democrazia numero uno al mondo”. Il mio obiettivo è sempre lo stesso: spingermi più lontano possibile.
Ha progetti per il futuro della sua espressione artistica?
Ne ho tantissimi… ma non anticipo mai nulla. Ci si vede sui muri!
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