Gli studi, le ricerche futuristiche sui meccanismi cerebrali del linguaggio, la vita in Svizzera. Una conversazione a tutto campo e sulle questioni di genere dice “le donne nei campi STEM sono ancora sottorappresentate”
All’Università di Ginevra si conducono studi importantissimi sul cervello umano. Attualmente, una équipe di scienziati ha prodotto uno studio sulle possibilità di recupero nei pazienti colpiti da ictus o da una malattia neurologica. Si tratta di malattie che compromettono l’uso del linguaggio. Una soluzione potrebbe essere quella di decodificare i nostri pensieri. Il problema è che i segnali inviati dal nostro cervello quando immaginiamo le parole sono molto deboli e quindi difficili da decodificare tramite le interfacce cervello-macchina. Lo studio in oggetto dimostra che è possibile allenarsi a immaginare meglio e quindi a migliorare la qualità di questi segnali. È stato condotto un esperimento su 15 volontari collegati a degli elettrodi. A queste persone è stato chiesto di immaginare regolarmente determinate sillabe per cinque giorni. L’esperimento ha permesso anche di specificare le aree cerebrali coinvolte in questo miglioramento. Nell’équipe di ricerca è presente una scienziata italiana, Silvia Marchesotti, la cui storia mi ha personalmente molto incuriosita, anche perché in rete ho trovato notizia di un altro suo studio sulla dislessia, un disturbo specifico dell’apprendimento che nel mondo colpisce un bambino su dieci. La neurostimolazione sta portando ad ottimi risultati. Ho così chiesto alla dottoressa Marchesotti un’intervista sul suo lavoro e sui tempi di conciliazione vita-lavoro, nonché di parlarmi un po’ della sua vita a Ginevra. La dottoressa è stata molto disponibile e per questo la ringrazio molto. Ecco il testo dell’intervista.
Vorrei, innanzitutto, chiederle qual è il suo ruolo all'interno dell'Università di Ginevra ed in quale dipartimento opera. Di quali studi si occupa la sua équipe di ricerca e la provenienza dei membri che ne fanno parte.
Attualmente lavoro come Research and Teaching Fellow (senior researcher) in un laboratorio del dipartimento di neuroscienze cliniche dell'Université de Genève che si occupa di sviluppare nuovi approcci terapeutici di riabilitazione per i pazienti colpiti da ictus. Siamo un gruppo molto eterogeneo, il capo del laboratorio è neurologo (Prof. Adrian Guggisberg), poi ci sono neuropsicologi, psicologi, neuroscienziati di formazione e ingegneri come me. Questi profili così diversi sono necessari perché gli approcci che utilizziamo riposano su tecnologie a volte complesse, al pari di conoscenze fondamentali in campo di neurofisiologia.
Ci parli dello studio sulla decodifica dei pensieri, che è davvero futuristico. Naturalmente, sarei piuttosto interessata a come si svolge il lavoro di équipe, da quanto tempo va avanti questo studio, come è nata questa intuizione e quali sono le applicazioni pratiche.
Sono molti anni che lavoriamo sulla tematica della decodifica della parola, il tutto è cominciato nel contesto di un programma europeo molto ambizioso che mirava a sviluppare una nuova generazione di interfacce cervello-computer (https://www.braincom-project.com/). Lo scopo di queste ricerche è, a termine, di fornire uno strumento che permetta a pazienti che hanno perso l’uso della parola e del linguaggio (e.g. afasia, locked-in syndrome), di ritrovare la capacità di parlare. Ma ovviamente rimane una sfida importante, sappiamo ancora poco su quale regioni del cervello sono implicate nell’immaginazione della parola e come il cervello si adatta all'utilizzo di queste interfacce. Quindi abbiamo deciso di procedere per tappe, cominciando con studi nelle persone sane, e con la decodifica di solo due sillabe per poi, negli anni, aumentare la complessità dell'approccio. Nello specifico dello studio completato, abbiamo cominciato nel 2019, e terminato nel 2021, poi ovviamente segue tutto il lavoro di pubblicazione dell’articolo scientifico, le cui tempistiche sono sempre piuttosto lunghe...
Il mensile "Focus" ed altri prestigiosi periodici hanno dedicato delle pagine anche ad un altro studio che lei sta conducendo, e di cui è la prima autrice: ovvero quello sulla dislessia come disturbo fonologico. Per quanto è possibile nella sintesi di una intervista giornalistica, vorrei che ne parlasse ai nostri lettori e lettrici.
Si tratta di uno studio ormai concluso che abbiamo condotto in persone con dislessia. Uno studio precedente aveva mostrato che la corteccia uditiva dell'emisfero sinistro in queste persone presentava oscillazioni cerebrali ridotte specificamente a 30 Hz. Abbiamo voluto provare ad aumentare queste oscillazioni utilizzando una stimolazione transcranica a corrente alternata a 30 Hz: è una tecnica non invasiva che consiste a stimolare con una corrente elettrica una zona precisa del cervello (nel nostro caso proprio la corteccia uditiva). L’approccio si è rivelato efficace ad aumentare le oscillazioni, e come avevamo ipotizzato, ha migliorato il deficit fonologico e anche diminuito il numero di errori di lettura.
Lei è una neuroscienziata oggi assai apprezzata. Come potrebbe quantificare in termini di tempo il suo impegno professionale e come riesce a conciliarlo con la sua vita personale?
Ah! Questo è un challenge intrinseco al mestiere di ricercatore. Chi resta dopo il dottorato lo fa per passione, e questo è un lavoro che potenzialmente non finisce mai. Nel senso che ogni studio può continuare all'infinito, e per questo spesso una volta lasciato il laboratorio la mente continua a pensare. È facile quindi lavorare più ore di quelle per cui si è pagati. Per quanto mi riguarda, ho sempre avuto bisogno di mantenere una vita sociale e fare sport, liberare la mente è fondamentale, in questo come in tutti gli altri mestieri. Più di recente, l’arrivo di mia figlia mi ha aiutata a staccare veramente la spina una volta a casa e nei weekend. E soprattutto a relativizzare tanti aspetti negativi di questo lavoro.
Essendo lei una dei tanti cervelli in fuga dall’Italia, chi ci legge sarà senz'altro curioso di conoscere la sua storia. Ci può parlare delle sue origini in Italia, del suo percorso di formazione e di come è approdata in una città cosmopolita come Ginevra? Ha anche altri tipi di esperienze lavorative all’estero?
Sono originaria di Novi Ligure, cittadina di provincia della pianura padana, e sono stata cresciuta con l’idea che se avessi studiato avrei avuto una vita migliore di quella dei miei genitori, che non sono mai andati all'università. Appena ho potuto ho lasciato molto volentieri la nebbia per trasferirmi a Genova, dove ho studiato Ingegneria Biomedica (bachelor) e poi Neuroingegneria (master). Ho effettuato un anno di Erasmus a Tampere in Finlandia, scelta perché cercavo qualcosa il più diverso possibile dall’Italia. Mi sono innamorata della mentalità aperta che si respira in Scandinavia (e poi anche in Svizzera). Sono poi tornata in Italia ma ho avuto rapidamente voglia di ripartire, questa volta al Politecnico Federale di Losanna, dove ho effettuato prima una tesi di master e poi un dottorato in Neuroscienze Cognitive e Robotica. Dopo un breve soggiorno a Parigi sono ritornata in Svizzera, all'Università di Ginevra, dove lavoro dal 2017. Torno spesso e volentieri in Italia, ma qui mi sento a casa. A volte torna la malinconia per la vita che avrei potuto avere se fossi rimasta a Genova, ma la qualità della vita in Svizzera è molto soddisfacente, quindi per ora sono felice di rimanere qui. Siamo in tanti nel mio gruppo di amici di Novi (ci conosciamo da quando eravamo adolescenti) ad essere partiti, e nessuno di noi ha voglia di ritornare. È un peccato se si pensa alle risorse impiegate nella nostra formazione in Italia, ma è anche comprensibile sapendo cosa offre il Paese in questo momento. Lasciare la provincia non è difficile, lasciare gli affetti lo è molto di più.
Quando nasce la sua passione per il cervello umano?
Direi alla fine del liceo, quando ho cominciato a leggere i saggi del neuroscienziato V. S. Ramachandran e del neurologo Oliver Sacks. È una tematica assolutamente affascinante, per certi aspetti il cervello umano è ancora una terra incognita che aspetta di essere esplorata. Soprattutto l’attività cerebrale legata al linguaggio, un'abilità unica propria del genere umano, rimane ancora poco conosciuta malgrado la sua importanza. Il cervello è un organo straordinario. Il mio interesse principale è l’utilizzo delle interfacce cervello-computer (brain-computer interfaces), che permettono di utilizzare la nostra immaginazione per controllare computer o altri strumenti. Detto così, sembra qualcosa di fantascientifico ma ci permette davvero di rappresentare in maniera concreta il potere della mente.
Quali sono le opportunità e le difficoltà, oggi, per le donne impegnate in settori scientifici?
Le donne in ricerca, e soprattutto nei campi STEM (Science, Technology, Engineering, or Mathematics) sono ancora una categoria sottorappresentata. Le cose stanno evolvendo nella direzione giusta ma comunque molto lentamente. Almeno adesso non c'è più stupore quando una ragazza si iscrive ad un’università scientifica, come ai miei tempi. Sebbene l’ambiente accademico sia in qualche modo preservato da multiculturalità, mentalità tendenzialmente aperte, e alti livelli di cultura, rimaniamo esposte agli effetti nefasti del patriarcato, del patronizing e del mansplaining. Questo ci arriva sia da persone con più esperienza di noi, sia da ragazzi molto giovani privi di esperienza. E poi c’è l'evidenza che le posizioni di comando sono per lo più occupate da uomini. Questo è dovuto da una parte al fatto che gli uomini sono formati per mettersi in avanti, le ragazze educate a stare un passo indietro. E quando arriva un figlio, sono soprattutto le madri a scendere a compromessi e rinunciare alla carriera. Questo succede anche qui in Svizzera a causa di politiche sociali legate alla maternità veramente molto scarse (peggio che in Italia). Una cosa positiva, almeno da qualche anno, il Fond National Suisse, il principale ente federale di finanziamento alla ricerca, cerca di finanziare in egual numero progetti di uomini e donne indipendentemente dal gender bias iniziale nel numero di domande. Ma è fondamentale formare le ragazze di domani a non avere paura a prendere la parola e credere in se stesse!
La fotografia e la montagna sono sue passioni. Ci parli dell’una e dell’altra, se le fa piacere.
Certo mi fa piacere! Scattare una foto mi procura un piacere immediato, riempie un bisogno di bellezza, mi permette di essere attenta al circostante e di ricordare il presente. Ho spesso paura di dimenticare certi momenti e di perdermi nelle mille cose da fare nel quotidiano. Sensazioni diverse quando ho un progetto specifico in testa, c’è qualcosa di simile ad un metodo di ricerca scientifica, trovare la luce e l'inquadratura giusta, si va per tentativi finché non si trova qualcosa che soddisfa. La montagna è diversa, non c’è bisogno di cercare bellezza perché l’abbiamo davanti agli occhi. Associo alla montagna soprattutto la libertà, la sorpresa, e a volte la paura. Qui in Svizzera è una parte integrante della cultura, e quando ci si abitua a frequentarla è difficile rimanerne lontano per troppo tempo.
Silvia Marchesotti ha ricevuto il VDS Research Award 2021 per il suo lavoro "Il miglioramento selettivo dell'attività a bassa gamma da parte di tACS migliora l'elaborazione fonemica e l'accuratezza della lettura nella dislessia", pubblicato sulla rinomata rivista scientifica PLoS Biology nel 2020. Per chi voglia conoscere meglio il lavoro di Silvia Marchesotti ed anche la sua passione per la montagna e la fotografia, il suo sito web è: www.silviamarchesotti.com
Lascia un Commento