Venerdi, 09/04/2021 - Una storia poco conosciuta - come capita spesso quando le protagonista sono donne - quella delle Portatrici carniche, che durante la prima guerra mondiale, da agosto 1915 ad ottobre 1917, accettarono di fare parte di un corpo di ausiliarie dei due battaglioni alpini di Tolmezzo e Val Tagliamento schierati in montagna in una posizione strategica per impedire il passaggio in Italia dell’esercito austriaco. Siamo infatti in Friuli Venezia Giulia, ai confini con l’Austria, le retrovie e il fronte erano in una zona impervia delle Alpi Carnie, senza strade ma solo sentieri e pietraie per cui neanche i muli potevano essere utilizzati per i trasporti, soprattutto quando c’era la neve alta. I magazzini militari erano nel fondovalle e fu chiesto alle donne dei paesi della valle un aiuto per portare vettovaglie, munizioni, medicinali, attrezzi ai circa 12.000 soldati in trincea che non potevano lasciare le postazioni. Non furono obbligate a farlo per cui il loro non era un corpo militare, ma tutte adottarono una autodisciplina ferrea, consapevoli dell’importanza e della pericolosità del compito che era stato loro affidato. Avevano tra i 15 e i 60 anni e si caricavano sulle spalle dentro alle gerle un peso tra i trenta e i quaranta chili; portavano al braccio un nastro rosso col numero del reparto a cui dovevano fare riferimento. Prendevano l’equivalente di sette euro al giorno per una marcia che durava per ore e che iniziava alle cinque del mattino con un dislivello da superare tra i 600 e i 1200 metri. Al ritorno a volte riportavano a valle i morti in barella e si occupavano anche della sepoltura. Alcune furono ferite dai colpi dei cecchini austriaci e una madre di quattro figli, Maria Plozner Mentil purtroppo perse la vita. Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro molti anni dopo, nel 1997, volle andare a consegnare la medaglia al valore militare alla memoria di Maria e le croci di Cavaliere alle poche superstiti ormai ultranovantenni.
La scrittrice Ilaria Tuti su questa vicenda e su queste donne straordinarie ha costruito “Fiore di roccia”, un romanzo che tocca corde profonde della nostra coscienza, uscito l’anno scorso per Longanesi e ripubblicato quest’anno da Mondadori per Mondolibri. Nella prima pagina sono messe in esergo le esatte parole che Maria Plozner Mentil rivolse alle altre per convincerle “Anin, senò chei biadaz ai murin encje di fan” (Andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono di fame). Dunque è prima di tutto un gesto materno che muove le Portatrici carniche, al di là della paura e della fatica, dell’amore per la patria. La protagonista è Agata che dopo sessant’anni, attraversando l’oceano, è tornata nel suo paese, Timau, solo pochi giorni prima distrutto dal devastante terremoto del Friuli del 1976. Vuole rendersi utile. E una volta là, dice la scrittrice, “riconobbe nel vento il richiamo della valle. E il ricordo di ciò che era stato tornò a scorrerle nel sangue”. Agata diventa subito l’io narrante, ma non si limita a raccontare, entra nel passato tutta intera, con i suoi pensieri, le sue emozioni, i suoi dubbi, la sua coscienza di allora e in questo modo trascina dentro di sé chi legge, in un coinvolgimento totale. In quel lontano 1915 ha vent’anni, è una donna forte, avvezza alle fatiche; si occupa di un padre infermo che non la riconosce ormai più, ha bisogno di essere accudito come un bambino e lei lo fa con dolcezza di madre fino a che, sfinito e inconsapevole, lui muore tra le sue braccia. Nello stesso tempo deve guardarsi dal ‘figlio dello speziale’, un ragazzo privilegiato che può consentirsi di non lavorare, e difendersi dal suo pressante desiderio di possederla. Le sue compagne sono di varie età: Viola, nata come lei la notte di Natale del 1895, è sua amica del cuore e basta uno sguardo per capirsi; Lucia è colma di istinto materno, riceve ottanta centesimi al mese per il marito mandato a combattere sul Carso e trenta per ciascuno dei quattro figli; Caterina è vedova, la più grande e la più calma, con le dita nocchiute come legno di fiume, sotto lo scialle nero non smette mai di lavorare a maglia; Maria, sempre col rosario in mano e sulle labbra una preghiera pronta ad essere condivisa dalle altre. Protagonisti indiscussi sono la miseria, la fame, la pena per chi è al fronte, la paura delle bombe e, grande, il dolore per i morti. Sono donne di poche parole, non ne hanno bisogno, bastano gli occhi, un gesto della mano, un sussulto del ventre. Hanno corpi forgiati dalla fatica quotidiana e conoscono più di chiunque altro le montagne che circondano la valle. Sono state convocate da un ufficiale dell’esercito, è stato loro richiesto di portare ai soldati al fronte cibo e munizioni e bisogna rispondere in fretta. La paura è la prima reazione, ma presto subentra la consapevolezza che non si possono tirare indietro, non è possibile l’indifferenza verso chi rischia la vita per difendere anche la loro. Il mattino presto si presentano per la prima volta con le loro gerle, sistemano sul braccio il nastro rosso con su scritto il nome del reparto, prendono il libretto su cui saranno annotati i movimenti, mettono la gerla sulle spalle e aspettano che venga riempita prima di partire. Quando capiscono che le due bandierine rosse stanno ad indicare esplosivo e che una è sulla gerla di Lucia si guardano tra loro e Viola d’impulso gliela toglie e la prende su di sé che non ha figli da lasciare soli. Comincia così il loro primo giorno da Portatrici, sotto il peso delle gerle colme fino all’inverosimile, con il mantello nero della tradizione, il fazzoletto annodato sul capo e ai piedi gli scarpetz, calzature di stoffa cucite col filo di spago che meglio degli scarponi dei soldati le fa aderire alla terra e alle pietre. Dopo la lunga salita, con le spalle che si stanno piagando sotto le stringhe, arrivano infine nel cuore dell’inferno: cadaveri dappertutto, feriti che si lamentano, corpi straziati e gli occhi vuoti dei rimasti vivi, con la barba non rasata, smarriti, sporchi e insanguinati, impegnati a dare soccorso o sepoltura. C’è stato appena un attacco furioso e gli Italiani hanno avuto la peggio. È la guerra, quella vera con in suoi orrori e loro sono donne, addestrate per tutta la vita fin da bambine a curare, nutrire, proteggere. Non possono lasciare quei ragazzi in quel sudiciume perciò prima di tornare in valle avvisano che il giorno dopo porteranno a casa le divise da lavare, le facciano perciò trovare pronte. In seguito, per consentire ai soldati di avventurarsi senza troppo rumore in una zona particolarmente impervia, le Portatrici confezionano scarpetz anche per i soldati i quali riusciranno a sorprendere i nemici e ad infliggere una sconfitta. Agata ricorda ”Abbiamo cucito per ore, per una notte intera, fino a spellarci i polpastrelli e sentirli bruciare contro lo spago. Abbiamo proseguito alla luce dell’alba, fino a quando il sole ha invaso il fienile attraverso i graticci. Abbiamo battezzato gli strati di stoffa con il sangue delle dita e la speranza di cuori di donna”. Ma toccherà purtroppo di imbracciare anche il fucile quando una linea resterà sguarnita. Il flusso di memoria di Agata ogni tanto si interrompe per fare spazio a pagine scritte in corsivo dove l’autrice segue la sorte di un altro personaggio Ismar, un giovane cecchino austriaco che sta a sua volta a fare il suo dovere di soldato su un altro fronte, ma sempre vicino perché le due trincee sono ad un passo di schioppo l’una dall’altra. Drammatico sarà l’incontro/scontro tra Ismar e Agata la quale dovrà vedersela con la sua coscienza di donna dove non ci sono fili spinati, frontiere, nemici ad ogni costo, dove il coraggio di restare umane/i è di gran lunga più grande di quello che serve per uccidere e il significato maschile dell’onore si perde tra le cose senza senso o assai pericolose. Dopo averlo ferito infatti torna di notte a riprenderlo per salvarlo perché non può, proprio non può lasciarlo morire dissanguato. Può così accadere che lentamente, attraverso alcuni intensi passaggi, arrivi per entrambi il momento di riconoscersi e perdonarsi. Inaccettabile tutto questo in tempo di guerra e Agata sa cosa l’aspetta una volta scoperto dal figlio dello speziale il suo segreto. Quando esce dalla sua casa, pronta a pagare, si troverà di fronte Lucia venuta a salvarla, Lucia che è stata colpita da una pallottola e sta per morire eppure arriva sorretta dalla madre con i bambini aggrappati ai suoi vestiti perché lei è la sola che forse aveva capito tutto e sa che Agata ha fatto la cosa giusta. Una storia estrema, ma che ne ricorda altre analoghe se si riesce a guardare bene nelle pieghe della storia. Fiore di roccia è il nome della stella alpina, simbolo delle nostre montagne, fiore tenace e duraturo. Ilaria Tuti lo ha messo a titolo del suo romanzo forse perché ricorda la forza tenace delle donne quando agiscono in fedeltà a sé stesse e ai valori che le hanno forgiate. Esse rappresentano in questo libro una potente accusa della guerra, dei suoi riti, dei suoi miti, espressa con un linguaggio limpido, preciso, che a volte ti arriva dentro come lama affilata.
Rosanna Marcodoppido
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