Martedi, 14/03/2023 - Women Talking, scritto e diretto da Sarah Polley, è ispirato ad una storia vera che ebbe luogo nel 2010 nella comunità mennonita di Manitoba in Bolivia. La storia ha ispirato il romanzo di Miriam Toews, da cui, a sua volta, è tratto il film.
In questa colonia isolata dal mondo e come fuori dal tempo, in quell’anno le donne scoprono che gli uomini hanno controllato la loro vita, la loro fede e la loro sessualità. Per anni, di notte le hanno drogate e violentate, causando diverse gravidanze indesiderate. Per potere abusare di loro e schiavizzarle, gli uomini della colonia le hanno tenute in un perenne stato di analfabetismo. Gli uomini della colonia sono poi stati arrestati e, come si legge nei titoli di coda del film, resteranno in carcere fino al 2036.
Il film, ottimamente girato ed accompagnato dall’eccellente colonna sonora della musicista iralndese Hildur Guðnadóttir, è una narrazione sulle dinamiche di potere tra i sessi, ma soprattutto sul potere liberante della parola e sulla presa di coscienza che diventa resistenza all’oppressione. In un certo senso, ricorda i gruppi di autocoscienza femminista degli anni Settanta. Infatti, la pellicola si concentra sulle lunghe ed anche accese discussioni di un gruppo di donne riunite in un fienile, dopo che gli uomini sono stati arrestati. Le donne hanno di fronte tre opzioni: non fare nulla, restare a combattere o andarsene per sempre dalla colonia. Più che un film sulla solidarietà femminile, trovo che esso racconti il modo in cui le donne hanno, per secoli, interiorizzato le “regole” dettate dal mondo maschile e di come, dopo la violenza che diventa non più sostenibile, solamente un confronto serrato attraverso il dialogo, solamente il coraggio che ciascuna di esse prende dal gruppo, dia loro la forza di adottare la decisione finale: andare via per sempre da tanto dolore, lasciare la comunità e trasferirsi in un altro angolo di mondo, portandosi via in fretta gli oggetti di una vita.
Certo, non è facile farlo a cuor leggero: infatti, queste donne che parlano sono estremamente combattute nell’adottare la decisione finale. Ecco perché si tratta di un film in un certo senso psicologico. Il divario è tra coloro che hanno passivamente accettato il loro ruolo di subordinazione alla popolazione maschile, giustificandosi con distorte credenze religiose, e le donne che, invece, non accettano più di sottostare ad un’ingiustizia del genere.
L’unica figura maschile positiva e gentile del film è il giovane maestro August Epp, che è innamorato di una di loro, Ona (Rooney Mara), incinta di uno degli stupratori del gruppo. È proprio con l’aiuto di August che le donne fuggono all’alba, dopo avere drogato i pochi uomini rimasti con lo stesso anestetico usato da loro.
Le discussioni che precedono l’atto finale sono interminabili, perché non si possono cancellare con un colpo di spugna tradizioni e credenze che si sono stratificate nelle coscienze individuali nel corso di decenni. Solamente una sorta di procedimento maieutico, alla maniera socratica, può far rinascere queste donne. Anche se non si tratta di un percorso indolore. Ma dolore non può aggiungersi ad altro dolore e, dunque, bisogna arrivare al punto in cui si abbia davvero il diritto di scegliere.
Straordinaria, direi, l’interpretazione delle sette attrici protagoniste: Claire Foy, Jessie Buckley, Judith Ivey, Ben Whishaw, Frances McDormand, Sheila McCarthy e una Rooney Mara davvero sublime nel pieno della sua maturità artistica.
Uno splendido lavoro sui miracoli che può fare la parola. Una testimonianza forte del fatto che solo una presa di coscienza individuale e collettiva può salvare e liberare l’essere umano, quando è vittima del potere dell’oppressione e dell’oppressione del potere.
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