Vogliamo figli e figlie felici, non chiusi dentro a gabbie - Manuela Manera/SeNonOraQuando? Torino
Le narrazioni tossiche del Congresso delle famiglie di Verona sul concetto di famiglia, di genere e di difesa dei figli. In realtà le loro sono gabbie che creano insicurezza e infelicità
Giovedi, 04/04/2019 - “Difendiamo i nostri figli” è lo slogan che a partire dal Family Day del 2013 imperversa tra coloro che si schierano contro la cosiddetta “teoria del gender”, contro l’esistenza di diverse tipologie di famiglia, contro la scelta di interruzione della gravidanza.
“Difendiamo i nostri figli” è una frase che assicura un’istintiva adesione e partecipazione ancora prima di ascoltare le ragioni che la sostengono e ancora prima di chiedersi “difendersi da cosa, da quale attacco, da quale pericolo?”. Tutte e tutti noi all’urlo “difendiamo i nostri figli” non possiamo che rispondere “certo, subito!”. I figli diventano (ancora una volta) il grimaldello per raggiungere ben altri obiettivi che la loro “difesa”; sono (ancora una volta) strumentalizzati per colpire la libertà e il diritto di autodeterminazione di tutte le persone. Non potendo affossare in modo diretto i diritti, si gira alla larga, creando un terreno di consenso attorno a temi che nessuno potrebbe criticare: ma come tali temi vengano poi declinati, intesi, argomentati, utilizzati per il raggiungimento di altri obiettivi, ecco questo è secondario, cioè viene in un secondo tempo e spesso non è spiegato in modo chiaro nelle sue realtà e conseguenze legislative (che hanno poi una ricaduta molto concreta nella vita di tutte e tutti noi in termini di tutele, possibilità, diritti).
Ad ascoltare le parole del leader del Family Day Massimo Gandolfini (ad esempio nella recente puntata di “Porta a porta” del 2 aprile scorso) si possono individuare tre elementi ricorrenti che permeano e supportano l’intero impianto (pseudo-)argomentativo:
La riduzione di ogni discorso al solo livello biologico e l’assenza di ogni riferimento a legami affettivo-relazionale tra le parti: la famiglia è considerata da Gandolfini solo in termini meramente biologici, ovvero come unione di un maschio e di una femmina che procreano un nuovo individuo. Questa è la famiglia: un insieme di cellule, non di persone con vissuti e legami affettivi.
La riduzione della donna a utero: la donna non viene mai considerata come persona con il diritto di scegliere e di autodeterminarsi; è considerata solo e sempre nella sua valenza riproduttiva, tanto è vero che Gandolfini insiste molto sul supporto economico come elemento che evita l’aborto; essere madre viene collegata ai soldi e non alla libera scelta di una persona di autodeterminarsi (in questo senso va anche il ddl Stefani sull’adottabilità del feto e il ddl Gasparri con la proposta di modifica dell’art. 1 del codice civile che vuole anticipare la “capacità giuridica” al momento del concepimento.
La difesa dei figli: lo slogan “Difendiamo i nostri figli” viene ribadito in collegamento al concetto di “famiglia naturale” (vedi punto 1) e lotta contro l’aborto (vedi punto 2): i figli dunque verrebbero “difesi” in primis assicurando loro la nascita e poi con la presenza di una madre e un padre biologici (o adottivi, ma sempre di due sessi opposti perché la riproduzione biologica umana è data da unione di gameti femminili e maschili). All’interno di questa cornice di presunta difesa, si inserisce anche la cosiddetta “ideologia del gender”, che altro non è che una narrazione tossica creata ad hoc per avere un nemico oscuro da cui difendere i figli: il “gender” (parola mutuata dall’inglese in modo fuorviante e risignificata in modo strumentale) è il mostro che aggredisce, perché minaccia l’identità di bambine e bambini indifesi (identità che, nella visione di Gandolfini & co., è unica e imposta dal sesso). Il discorso, di fatto, è sempre e costantemente appiattito su un piano meramente biologico, non considera la realizzazione delle persone che compongono la famiglia né parla della loro felicità e autodeterminazione come individui. Lo slogan “Difendiamo i nostri figli”, che trova tanto successo, va rovesciato non agendo sulle argomentazioni (quelle vengono in un secondo momento), ma con un altro slogan, altrettanto potente e che parli alla pancia; uno slogan che metta ben in luce una visione diversa e che usi però lo stesso grimaldello loro: i figli (e le figlie!).
Dobbiamo dunque agire con una nuova strategia comunicativa che rovesci il loro punto di vista, distruggendolo proprio a partire dallo slogan, che (in quanto slogan) basta a se stesso, esiste anche senza supporti esemplificativi o argomentazioni complesse.
Dobbiamo iniziare a dire che “Vogliamo figlie e figli felici”: chi potrebbe mettere in dubbio una frase simile? Ma non basta. La figura del padre severo (cfr. Lakoff, “Non pensare all’elefante”) è un modello che ha successo perché mira al benessere futuro: ciò che ora appare come una punizione porterà (secondo questo modello) a buoni frutti poi (“lo faccio per il tuo bene”). Dunque dobbiamo far passare l’idea che la “difesa” di cui loro parlano è una gabbia che crea insicurezza, infelicità, nevrosi, depressione e che in alcuni casi porta al suicidio. Noi non vogliamo questo per le nostre figlie e i nostri figli; noi vogliamo che loro possano essere felici. Noi vogliamo dare loro non gabbie che portano a nevrosi e traumi ma strumenti perché possano diventare persone autonome, serene, libere di scegliere.
Vogliamo la felicità per le nostre figlie e i nostri figli, non gabbie dolorose ma felicità e serenità.
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