Vicende della Resistenza bresciana. I gesti e i sentimenti delle donne
Le fonti corali sul vissuto e le condizioni materiali di vita restituiscono frammenti di Storia personale di donne che hanno fatto la Resistenza bresciana
Domenica, 24/04/2022 - Continuazione con la storia familiare e recupero personale della scelta.
Nell'infanzia di alcune donne sono già presenti gesti sordi di resistenza: i genitori di Carmela Trainini, antifascisti, si oppongono a farle indossare la divisa del regime, nella recita a scuola. La madre di Dolores Abbiati non pagherà la tessera delle Piccole italiane, un modo di resistenza passiva, non violenta per sottrarsi alle imposizioni del regime. Per entrambe, segue il passaggio politico e il recupero personale della scelta. Carmela, nella fabbrica Tempini di Brescia ambiente di educazione politica, inizierà l’attività antifascista clandestina. Dores , dopo l’infanzia trascorsa al confino di polizia a Lipari e Ponza, poi a Tremiti, seguirà a Milano l’attività antifascista clandestina dei suoi genitori, poi arrestati nel 1937. I tre figli faranno sparire da casa tutto il materiale propagandistico e, a partire dal gennaio ’44, con il nome di “Lola”, Dolores sarà staffetta e addetta ai servizi di collegamento del Verbano, luoghi nei quali il padre, nel corso di un rastrellamento verrà catturato e fucilato in Val Grande il 24 giugno del’44.
La testimonianza dei luoghi.
La città, le campagne e le valli bresciane non sono semplici riferimenti spaziali, ma ancora oggi testimoni vigili di quelle vicende. Come l’eccidio di piazza Rovetta a Brescia il 13 novembre 1943 o l’eccidio di Bovegno, nell'alta Val Trompia tra il 15 e 16 agosto 1944, con l’incendio di case e i rastrellamenti di fine agosto lungo l’asse a cavallo tra la Val Trompia e la Val Sabbia. Maria Corsini riferisce il complesso e articolato rapporto tra partigiani e contadini nelle valli, la diffidenza verso i gruppi di partigiani che espongono i civili sprovveduti alla rappresaglia e spesso impossibilitati per l’inesperienza, a difendere quei luoghi.
Le regole della clandestinità.
Elsa Sacobosi :“mi hanno detto che dovevo cambiare nome”. Sceglie “Piera” come nome di battaglia e nel febbraio del ’44 è avviata in montagna alla guerra partigiana. In clandestinità si sposta tra città, Val Trompia, Val Camonica, Val Saviore con il compito di accompagnare ispettori e capi presso le formazioni “Garibaldi”. Le regole della clandestinità mettono al primo posto i suoi doveri di combattente politica, sentiti come un dolore, ma uniti all'orgoglio di essere riuscita a farvi fronte. Altre donne nascondono materiali compromettenti all'interno di uno spazio chiuso della casa legato al lavoro quotidiano, altre nel pollaio, oppure sotterrati nell'orto. Sarà la madre di Salva Gelfi, che faceva le buche, metteva l’alluminio, le ricopriva di terra e ci seminava sopra, a diventare la custode dell’ archivio delle Fiamme verdi. Alcune donne, non solo distribuiscono la stampa clandestina, ma vi scrivono. Laura Bianchi collabora a “Il ribelle”, Camilla Cantoni contribuisce alla stampa del giornale “5D: Difesa Dei Diritti Delle Donne”, ma avrà vita breve.
L’inventiva: annunciare il nemico, per contrastarne l’azione.
La collaborazione pratica, anche con mezzi rudimentali rende possibile la sopravvivenza della lotta di Liberazione, come testimonia Maria Analotti, staffetta, portaordini in Val Trompia nella zona di Collio e, durante i rastrellamenti, anche di viveri. Si stendono grandi lenzuola per annunciare l’arrivo dei rastrellamenti, insieme alla parola d’ ordine, chiamare le galline: “co, co, co, co” . Oppure, ricorda Maddalena Flocchini, si urla dal monte più alto, dove si poteva sentire meglio l’eco, si chiamano le capre, un segnale per i partigiani, che dovevano nascondersi.
La fatica del trasporto e del cammino.
Racconta Maria Corsini la fatica animalesca, cariche come asini per trasportare viveri a Marmentino, nell’alta Val Trompia. Compiti dignitosi di assistenza e sostegno, pericolosi durante il cammino nei boschi e nei giorni del rastrellamento. Elsa Sacobosi riferisce il rischio nel trasporto di armi. Riuscirà insieme ad un’amica ad avere un camioncino della O.M. e da via delle Battaglie a Brescia, giungerà a Milano, viale Monza. In una drogheria lascerà ventiquattro parabellum. Ma alla richiesta, come ricompensa, di almeno qualche paio di scarpe per i ragazzi grande sarà la delusione della risposta: “ eh, siamo a corto, arrangiatevi anche voi”. La paura del trasporto delle armi sembra essere legata all'ambivalenza del significato che le armi assumono, in quanto strumenti destinati, a differenza dei viveri, a distruggere. Questo spiega perché alcune testimoni si fossero rifiutate di trasportarle.
Il nemico: paura, coraggio, comico e grottesco.
Il nemico suscita paura, rabbia, vendetta, rappresaglia, ma anche una sorta di immedesimazione. Si impara a convivere con la paura, la fifa, il “bao”. Maria Poli, maestra, coglie la violenza e il grottesco che si nascondono dietro le grandi parate, come quelle organizzate in piazza Vittoria, a ostentare “ il passo dell’oca”, così impresso nel corpo, da farle mantenere anche in seguito l’andatura in punta di piedi.
Agape Nulli si vede come in un film, quando racconta del suo volo dalla bicicletta con due valigie piene di caricatori modello 91 per i partigiani, mentre un gruppetto di fascisti e ufficiali tedeschi se la rideva: per loro un personaggio comico, non pericoloso perché insospettabile. Ma il nemico può anche essere ridicolizzato. Nell’episodio di Antonia Oscar, “pericolosissima” incarcerata a Brescia, il nemico è ridicolizzato: il commissario scopre sotto le coperte una “Beretta” perfetta, pitturata di nero, ma fatta con la mollica di pane. Le risate rappresentano allora l’umorismo della disperazione, di chi non ha nulla da perdere tranne la vita e può permettersi di ironizzare su se stesso e sugli altri.
La cura (anche del nemico).
I gesti quotidiani di cura sembrano difficilmente narrabili proprio perché ordinari. Dice Maddalena Flocchini:“era nella nostra coscienza aiutare i partigiani, perché come fossero miei fratelli”. Delfina Ruggeri porta notizie e medicinali, presta soccorso e assistenza ai feriti, collabora con i gruppi partigiani che operano a Brescia. Dimostra capacità di decisione rapida e coraggio quando fa aggrappare al proprio corpo, con tutto il peso, Mario Donegani ferito dai fascisti durante l’eccidio di piazza Rovetta e lo trasporta da Porta Trento al “Fatebenefratelli”. Ma Delfina prova un sentimento materno anche verso due tedeschi feriti perché vede in loro il volto dei suoi figli. Appoggiato il mitra sul tavolo, dovevano andare in bagno: “io avrei potuto ucciderli come due galletti” invece “pensa alla loro mamma, se li vedesse”. Commuoversi per il nemico in difficoltà è fiducia e giustizia capace di rimettere in moto i meccanismi del dialogo.
In carcere: solidarietà e diffidenza.
I momenti più brutti, quelli dell’arresto, dell’interrogatorio e della convivenza in cella. Le politiche mal sopportano le prostitute, che tuttavia sdrammatizzano l’esperienza della reclusione: rubano le lenzuola e insegnano a sfilarle, farne fili di cotone e poi delle canottiere con gli aghi che si facevano mandare da fuori. Come riferisce Prosperina Maffezzoni, la diffidenza si manifesta anche verso altre donne soprattutto per timore di delazioni, per l’inautenticità dell’impegno. Fuori o dentro il carcere si può contare su donne fidate legate da relazione affettiva amicale, piuttosto che politica: infatti proprio a un’amica, Prosperina affiderà in deposito il ciclostile. Ci si esprime anche nei piccoli gesti: trovare in carcere momenti di respiro ascoltando un’insegnante dare lezioni di letteratura. Una detenuta prima di uscire lascia le sue calzine, le sue caramelle, il suo pettine, cogliendo identiche necessità e difficoltà, ma anche esprimendo la gratuità del dono.
La delusione del “dopo”.
Alcune si dedicheranno all'attività politica, come Dolores Abbiati, alla quale successivamente sarà intitolata una sezione dell’ Anpi di Brescia, altre ancora aderiranno ai partiti, ma senza assumere incarichi politici. Delfina Ruggeri, dopo la Liberazione, entrerà nel partito socialdemocratico e organizzerà le donne per ottenere garanzie di lavoro e servizi. Insieme a tante altre non chiederà alcun riconoscimento. Altre ancora chiederanno e otterranno il riconoscimento di Partigiana. Delusione e rabbia, amarezza, ingratitudine, mancato riconoscimento insieme al settarismo che pare attraversare molti luoghi della politica negli anni della “ricostruzione” spingeranno molte donne della Resistenza al “ritorno a casa”. Maria Boschi, “Stella”: “un posto di lavoro decoroso ce lo aspettavamo, e poi ci aspettavamo giustizia, libertà, uguaglianza”. Alcune donne emigreranno all'estero, in Svizzera nelle fabbriche, in Germania come domestiche. Tuttavia, il paese, la famiglia, la scuola, i luoghi di lavoro rimarranno per molte donne resistenti gli ambienti privilegiati per manifestare il patrimonio di consapevolezza civile della lotta partigiana.
Per le testimoni ricordare i caduti , portare fiori a una lapide sul muro dei municipi, anche quelli più piccoli e sperduti, in un’ottica pacifista e non guerrafondaia, -quanto mai attuale- costituisce un momento di aperta ribellione e contestazione dell’ideologia imposta dal regime.
Per un approfondimento delle interviste iniziate nell'aprile del 1988: AA.VV.“I gesti e i sentimenti: le donne nella Resistenza bresciana”, Assessorato alla cultura, Queriniana, Brescia, 1990
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