Lunedi, 07/01/2019 - Essere femminista per me significa essere consapevole del valore che assume l’appartenere al mio genere e alla sua esperienza storica, trarre linfa da una genealogia senza cancellazioni, omissioni, svalutazioni, operazioni in cui sono maestri troppi uomini del mondo accademico, dell’informazione, della politica. Non solo loro, purtroppo.
Mi accade sovente di imbattermi in un colpevole strabismo della memoria anche nelle pratiche discorsive all’interno del dibattito femminista, in vari scritti su opuscoli, riviste, libri.
Devo dire che sono stanca di ripetermi, ma ogni tanto sento la responsabilità e l’urgenza di farlo al fine di contrastare una sottrazione, in primo luogo a noi stesse, di verità, spessore storico, radici. Potrei fare molti esempi, ma non finirei tanto presto.
Più volte ho ascoltato o letto affermazioni come questa “Il cammino verso la parità dei diritti iniziato negli anni Settanta….”
Negli anni settanta in realtà erano già stati conquistati - alcuni purtroppo solo sulla carta - il diritto di voto, il diritto all’istruzione, al lavoro, alla parità salariale, all’accesso a tutte le carriere, compresa la magistratura. Ci sarebbe da aggiungere anche il nuovo diritto di famiglia del 1975 su cui vale la pena ricordare che è stato ottenuto grazie ad una iniziativa trasversale tra alcune parlamentari del PCI, del Psi e della DC, sulla forte spinta di associazioni femminili, l’UDI innanzitutto, ma nella quasi totale disattenzione del neofemminismo.
In verità la lotta delle donne per l’affermazione dei loro diritti è molto lunga, sempre duramente ostacolata; una storia che, come molte sanno, ha avuto inizio nel nostro paese durante il Risorgimento, a partire dalla breve ma intensa esperienza delle Repubbliche giacobine, con figure prestigiose, quasi tutte cancellate dalla storiografia ufficiale, come ad esempio l’anonima patriota veneziana che scrisse nel 1797 “La causa delle donne. Discorso agl’Italiani della Cittadina***” in cui sostenne la necessità di istruire le donne e di consentire loro la partecipazione attiva alla elaborazione delle Costituzioni.
Una seconda, Delfina Piantadine, parlava alla figlia di due Risorgimenti uniti tra loro: quello per la liberazione dal dominio straniero e l’altro per la liberazione “dal comune pregiudizio che alla donna interdice il libero pensiero”. La figlia era la grande Anna Maria Mozzoni, mazziniana, autrice di una Petizione per il voto politico delle donne; si batté per la riforma del diritto di famiglia e l’inasprimento delle pene nei casi di stupro. Nel 1880 insieme a Paolina Schiff fondò la “Lega promotrice degli interessi femminili” che si può considerare l’atto di nascita in Italia di un movimento politico di sole donne.
Anna Kuliscioff, Maria Montessori, Emilia Mariani, Sibilla Aleramo, Ersilia Majno, Teresa Labriola, solo per nominarne alcune, arricchirono una articolata realtà associativa impegnata sul diritto al voto e all’istruzione femminile, sulla parità salariale e la revisione del Codice civile negli articoli riguardanti la tutela maritale, la patria potestà, l’attestazione della paternità, la prostituzione e la tratta.
Dopo il buio ventennio fascista riprese con grande determinazione il protagonismo delle donne, molte delle quali avevano attivamente partecipato alla lotta per la Liberazione e non intendevano ritornare nelle case, chiuse in un ruolo senza poteri e senza diritti. La Resistenza infatti per loro non era finita: volevano uscire da uno stato di pesante subalternità, costruire spazi e pratiche di solidarietà e democrazia, impegnarsi per la pace di fronte alla minaccia di nuove guerre e conquistare, in nome dell’uguaglianza, leggi contro ogni discriminazione e per una piena cittadinanza. Quante erano? Erano tante.
Al primo Congresso nazionale dell’Udi, ad esempio, nel 1945 a Firenze c’erano delegate provenienti da 78 province in rappresentanza di 400.000 iscritte. Fu un nuovo inizio e un grande guadagno per tutte. Questi, in estrema sintesi di cui mi scuso molto, i fatti. Dunque affermare che il cammino verso la parità dei diritti sia iniziato negli anni settanta è un falso storico clamoroso.
Cosa successe in realtà negli anni Settanta?
Come si sa, a partire da una severa critica al concetto di uguaglianza e al rifiuto dell’emancipazione, letta solo come piatta omologazione al modello maschile, nacque un nuovo travolgente movimento di donne che in nome della differenza assunta come valore e attraverso una pratica inedita, l’autocoscienza, impose all’agenda politica questioni legate alla sfera del privato come violenza sessuale e aborto, portando una maggiore radicalità e forza alla lotta contro tutte le strutture materiali e simboliche del sistema patriarcale. Fu una stagione entusiasmante, politicamente feconda che per molte tolse definitivamente credibilità al modello maschile tradizionale, alla sua presunta superiorità e segnò cambiamenti rilevanti anche in una associazione storica come l’Udi.
La scommessa era alta: ritrovare l’autenticità dietro la maschera di una femminilità imposta, affermare la verità e il valore di sé come soggetto sessuato, soggetto da porre finalmente come misura di una inedita civiltà umana. Un lavoro politico assai complesso che per molte non ha avuto mai fine. Eppure in vari testi firmati da donne si parla proprio di fine del femminismo dopo le grandi manifestazioni degli anni Settanta, quando le donne si sarebbero “ritirate ordinatamente e in silenzio, senza fare rumore”.
Ma davvero? Penso alle associazioni e gruppi di donne che hanno continuato a contrastare un patriarcato duro a morire. Penso alle tante studiose impegnate a costruire un sapere sessuato nelle varie discipline smantellando certezze teoriche consolidate e mettendo al mondo un altro simbolico. Io sono solo una delle tante protagoniste di questo lungo ininterrotto percorso collettivo, una testimone che sente sulla propria pelle la ferita lacerante prodotta da cancellazioni o distorsioni dei fatti. Dal 1974 non ho, infatti, mai smesso di lottare, in un’ottica intersezionale: nell’Udi, nell’occupazione del Buon Pastore che ha dato poi vita alla Casa Internazionale delle Donne e, fin dall’inizio, nella rete Non Una Di Meno. Insieme a tante per costruire dignità e libertà femminile, ogni giorno impegnate contro la violenza maschile, per la difesa della 194 e dei consultori, per una democrazia finalmente compiuta; insieme a ricostruire e diffondere l’esperienza storica delle donne e i loro nuovi saperi, a lottare contro gli stereotipi sessisti nelle scuole, nelle aule dei tribunali, nella lingua e nella pubblicità a proposito della quale voglio ricordare il premio Immagini Amiche promosso dall’Udi, giunto alla sua ottava edizione, che coinvolgendo creativi, committenti, scuole, enti locali, ha contribuito non poco ad un ridimensionamento drastico di immagini e messaggi lesivi della dignità femminile, e non solo nella pubblicità.
Il femminismo dunque non è mai morto anche se per molto tempo non è stato più quello dei grandi cortei che hanno caratterizzato in modo particolare gli anni Settanta e che in questi ultimi anni è tornato con forza grazie alle nuove generazioni di donne che vivono quotidianamente e pesantemente la resistenza ostinata di un patriarcato rivitalizzato da un neoliberismo senza freni.
Oggi il problema vero del femminismo, su cui ragioniamo da tempo, consiste semmai in una sua mutilata cittadinanza e autorevolezza nei luoghi della formazione, dell’informazione e della decisione politica. Una sottorapresentazione ed una ostinata sottovalutazione delle elaborazioni teoriche e dell’agire politico autonomo delle donne a cui si aggiunge un uso in chiave patriarcale della libertà da parte di molte - tese ad occupare un posto nel mondo senza l’ambizione di cambiarlo- rendono pressoché ininfluenti i valori del femminismo a fronte di un contesto generale davvero inquietante per tutte e tutti.
Eppure la radicalità di cui siamo portatrici rappresenta l’unica forza in grado di contrastare adeguatamente i mali che affliggono l’umanità e ne bloccano un livello più alto di civiltà: sessismo sempre più violento, razzismo, fascismo e un modello di sviluppo e di consumo che sta portando alla distruzione sistematica del Pianeta. Dobbiamo perciò impegnarci ad usare meglio questa nostra radicalità di sguardo e di pratiche; per farlo occorre in primo luogo potenziare la capacità di vivere, a vantaggio di tutte, una pratica di relazioni tra donne basate sul reciproco riconoscimento pur nelle differenze, avendo però radici storiche ben salde, capaci di fornire un orientamento sessuato nella selva intricata di false libertà e nella sottrazione progressiva di soggettività e di senso. In secondo luogo dobbiamo tornare, in tantissime, a riempire lo spazio pubblico con i nostri corpi, la nostra complessa intelligenza, il nostro desiderio di autenticità e di giustizia per provare a cambiare questo presente così ostile a quel sogno di libertà e di società che ha animato la vita e la passione politica della mia generazione e di quelle che l’hanno preceduta. Io non sono pessimista.
Quel sogno infatti rivive in tutta la sua radicalità e dirompenza nelle giovani donne con cui oggi ho la fortuna di percorrere strade, condividere gesti, costruire pensiero nell’alveo largo e articolato del femminismo.
Roma, 7 gennaio 2019
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