Venerdi, 15/12/2017 - Questa è la storia di un romanzo di formazione che è nato tre volte: la prima a Buenos Aires, poi a Trieste, e infine a Belgrado e s’è chiamato, in omaggio a un sogno, “Cruzandoelrío en bicicleta”, “Attraversando il fiume in bicicletta”, “Prekorekenabiciklu”. Si potrebbe obiettare che ogni romanzo che venga tradotto ha il dono di una nascita plurima,ma in questo caso è l’autrice stessa, Ana Cecilia Prenz Kopušar, ad averlo immaginato e scritto nelle tre lingue che formano l’ossatura della sua vita. “Attraversando il fiume in bicicletta” (pp.118, euro 12) che è pubblicato da Vita Activa, piccola quanto valorosa casa editrice collegata alla Casa Internazionale delle donne di Trieste, ci introduce in un universo inquieto e frastagliato, dove la parola chiave sembra essere complessità. Si palesa fin dalle prime sequenze,quando si capisce che quella permanenza a Belgrado in cui l’autrice, frequentando le scuole medie, sperimenta un pieno senso di appartenenza, è in realtà non un esilio, quanto un ritorno. Perché Ana Cecilia a Belgrado c’era nata, nel 1964, e s’era poi trasferita in Argentina, a La Plata, per poi tornare a Belgrado nel 1975, a ridosso della dittatura dei generali.
A La Plata aveva lasciato un mondo fatto di parole - “il nostro argentino, allegro, spensierato, diretto, creativo” - e di sapori incancellabili, di affetti legati soprattutto alle figure delle due nonne - la nonna Maria, operaia in fabbrica per tutta la vita, che sognava di attraversare il fiume in bicicletta, ma anche la nonna Sarita, bellissima e forte che aveva il dono “di identificarsi con le storie degli altri”. Un mondo diventato di colpo impraticabile e minaccioso: “i ricordi sono pochi: macchine date a fuoco negli angoli della città di La Plata, uomini intorno alla facoltà di scienze umanistiche con l’arma puntata, una macchina Ford Falcon senza targa posteggiata davanti a casa nostra e scritte sui muri dell’università che dicevano che mio padre era un figlio di puttana. Un modo come un altro per definire un avversario politico”.
Ma se a La Plata tornerà più volte con l’immaginazione e la memoria, ricostruendo il mondo dei suoi nonni che è tutt’uno con la sua infanzia, è a Belgrado che Ana Cecilia si innamora per la prima volta, e impara a conoscere l’anima di un popolo attraverso la musica. E matura anche la consapevolezza, mai più abbandonata, del rispetto che si deve portare al profondo nucleo inventivo e relazionale di ogni lingua.
Cosicché amerà anche l’italiano - che è poi la lingua degli amati nonni paterni, originari di piccoli paesi dell’Istria - quando, con i genitori e la sorella più piccola Betina, si trasferirà a Trieste.
Siamo nel 1979: e se con la morte di Tito, avvenuta l’anno successivo, per la Jugoslavia finisce un mondo, il mondo della giovane protagonista è più che mai in via di definizione; curiosa, affamata di esperienze e di cultura, è felice soprattutto quando intuisce, attraverso la pratica della musica e dell’arte teatrale - quest’ultima compiuta all’Università di Roma - che si aprono “nuove strade per unire i miei mondi”.
Al crocevia di eventi storici travagliati e dolorosissimi - il dramma degli istriani e dell’immigrazione, le divisioni e i conflitti in quella che diventa l’ex Jugoslavia, i tanti desaparecidos argentini - questa storia di formazione multipla possiede il dono di irradiare fiducia nelle potenzialità benefiche della lingua, di tutte le lingue quando entrano in relazione tra loro. Ed è molto bello, e particolare, l’italiano in cui è scritta questa storia: una lingua ripulita del superfluo, e dunque essenziale e a volte spericolata, un periodare dal ritmo breve e spezzato, che vale a dislocare gli elementi della narrazione, che siano paesaggi, personaggi, eventi, collocandoli in una prospettiva diversa. Sulla natura di questa prospettiva, ci illumina la scrittrice stessa: “vorrei essere terbiqua. Lo sono. Esisterà la parola?”
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