Domenica, 13/03/2016 - Congresso è per noi dell’Udi parola ingombrante, pesante, eppure di difficile sostituzione. Chi viene eletta negli organismi dirigenti nazionali sa perfettamente che non riceverà stipendi né contributi, ma solo rimborsi. Sa anche che il potere che eserciterà coincide con la responsabilità di portare a compimento le decisioni prese collegialmente nelle assemblee nazionali e che il prestigio che ne deriva è in genere circoscritto nel perimetro dell’associazione e poco oltre, vista anche la persistente disattenzione dei media nei confronti dell’agire politico delle donne, soprattutto di quelle che come noi non hanno padroni. Sono queste le condizioni di una democrazia sostanziale e di una autonomia reale, ne conosciamo i costi e continuiamo con orgoglio a scegliere di pagarli. Naturalmente restano aperti anche da noi i rischi di conflitti e di spaccature, la difficoltà ad assumere fino in fondo la cura politica delle relazioni, presupposto fondamentale per arrivare a decisioni e scelte condivise.
Un Congresso anche per l’Udi rappresenta un momento speciale, una parentesi che ogni 4 o 5 anni decidiamo di aprire nel quotidiano svolgersi di molteplici attività, con l’intento di verificare a livello nazionale l’efficacia della nostra politica, prestando una attenzione particolare a quello che ci succede e che succede attorno a noi. Una lettura del contesto a più voci, anche esterne all’Udi, è iniziata il 30 gennaio con l’Anteprima, durante la quale si è avviata una riflessione sulla realtà in cui viviamo e sui soggetti che la abitano. I soggetti dunque, a cominciare da noi.
Noi dell’Udi chi siamo? Molti anni fa ci definimmo “donne della vita quotidiana” a fronte di una deriva specialistica del neofemminismo con la nascita di associazioni di filosofe, di storiche, di scienziate le quali, pur nella ricchezza di elaborazioni teoriche fondanti, si trovano strette nelle logiche di una frammentazione del sapere propria delle discipline accademiche, distanti perciò dalla complessità dell’esperienza così come era emersa, con tutta la sua travolgente carica di verità, grazie alla pratica dell’autocoscienza. Volevamo infatti porci consapevolmente come soggetti nell’interezza della vita materiale e simbolica di ciascuna, attente alle altre donne e alla conoscenza e diffusione degli studi femministi in ogni campo.
Siamo ancora questo: donne della vita quotidiana, analizzata con chiavi di lettura sessuate e una pratica politica che intreccia, come sempre, la riflessione e l’azione, il lavoro del pensiero e la fatica di un fare collettivo, generatore a sua volta di conoscenza, in grado di diventare gesto pubblico e dunque trasformativo. Donne radicate saldamente nella storia del proprio genere, con varie sedi fisiche e simboliche da curare e da mantenere. Siamo consapevoli di essere una fra le tante realtà femminili che si muovono nel nostro paese per costruire una diversa civiltà umana, libera da violenze, sopraffazioni e discriminazioni. Siamo anche convinte che, se vogliamo determinare cambiamenti radicali, la relazione tra donne resta ancora passaggio ineludibile. Ma a che punto sono oggi le relazioni tra le donne?
Assistiamo purtroppo ogni giorno ad un perdersi di sé come soggetto sessuato da parte di donne presenti nei luoghi in cui si decide, dove la differenza femminile si riduce, tranne qualche eccezione, a presenza di corpi differenti ma incapaci di parlare un linguaggio radicato nel proprio genere e nella sua storia. Assistiamo con sconcerto al paradosso rappresentato dal mondo della scuola e dei media dove, nonostante il numero rilevante delle insegnanti e delle giornaliste, trasmissione e informazione continuano a mantenere un alto tasso di sessismo, occultando e depotenziando saperi, pratiche, figure femminili di cui è ricca la cultura e l’esperienza storica delle donne. Come mai? Siamo tante, brave, competenti, ma viviamo purtroppo tutte in piccole o grandi frazioni di spazi poco comunicanti tra loro: una frammentazione senza interlocuzione. Questa è la nostra vera miseria, dovuta non solo alla resistenza maschile al cambiamento, ma anche e soprattutto ad un deficit di relazione tra donne. Ogni tanto qualcuna pensa di dare vita ad un nuovo soggetto nazionale o di mettersi alla testa di una rete, senza passare per l’esercizio faticoso della democrazia e del reciproco riconoscimento, con il risultato che restiamo tutte, ininfluenti, nella coda di un grosso corpo a testa maschile.
Il problema non è tanto superare la frammentazione quanto saperla trasformare in ricchezza in grado di contrastare l’inessenzialità del punto di vista della differenza femminile nel panorama politico e istituzionale del nostro paese. Noi dell’Udi abbiamo avuto sin dalla nostra nascita la tensione verso l’unità con le altre; la scelta di fare anche questa volta un congresso aperto a tutte ha questo significato. Sappiamo che non è cosa semplice, soprattutto in questo nostro tempo segnato da logiche neoliberiste che erodono soggettività e tendono a trasformarci in narcise pronte al consumo. Eppure in questo mondo mercificato e globalizzato, accanto a fondamentalismi di ogni tipo e a tragici respingimenti, restano anche sacche di resistenza per una libertà diffusa, capace di attraversare confini geografici e identitari, abbattere muri e steccati interni ed esterni, rompere persino il binarismo sessuale e la sua forza normativa.
Si stanno pertanto rivelando inadeguate o insufficienti alcune nostre categorie interpretative a causa anche di nuove tecnologie e della bioeconomia che immette nel mercato ovociti, sperma, placenta, utero...: nuovi modi di restare al mondo, venire al mondo, mettere al mondo. Tutto questo richiede uno sforzo di risignificazione dell’esperienza umana che non ammette scorciatoie: tra proibire e consentire occorre imporsi la pazienza per comprendere, esercitare l’empatia e l’ascolto come valori irrinunciabili, evitando la logica sterile dello schieramento e della strumentalizzazione.
Bisogna perciò individuare nuove chiavi di lettura e scegliere forme dello stare insieme che consentano una pratica all’altezza delle sfide del presente, capace di edificare ponti con nuovi soggetti, primi tra tutti le ultime generazioni, le donne migranti e anche quegli uomini che sono in cammino verso una loro difficile libertà. Questo credo che tenteremo di fare e continuare a fare noi dell’Udi, ma non basta. Oggi più che mai, nello scenario inquietante e complesso in cui siamo immerse, c’è bisogno di unire forze, competenze, passione, per costruire tutte insieme un soggetto politico femminile policentrico ed interrelato, capace di contrastare con efficacia e autorevolezza vecchi e nuovi patriarcati e di affermare ovunque autodeterminazione e libertà femminile. Spero che il Congresso possa rappresentare un passaggio fecondo per la vita dell’Udi e nello stesso tempo l’avvio di una forte relazione politica tra le tante realtà femminili e femministe presenti in Italia e non solo. Sarebbe bello oltre che necessario riscoprire la felicità di camminare insieme e insieme cambiare radicalmente questo nostro mondo che sembra andare sempre più alla deriva. Con dentro al cuore questa speranza, vado verso il XVI Congresso insieme a tutte quelle che con intelligenza e coraggio vorranno guardarsi dentro, guardare fuori, ma soprattutto guardare oltre.
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