Mercoledi, 28/03/2018 - Che le parole formino i pensieri, e che ai pensieri seguano le azioni, ce lo ha ricordato lo scorso anno il video Parole d’amore https://youtu.be/QQb_HrCdyHk di Luz: ora un libro appena uscito vuole sottolineare a chi fa comunicazione e informazione nei social e nei media che “chi parla bene ha pensato anche bene”.
Quindi, per dire cose giuste, é necessario anche pensarle, e per pensarle occorre distinguere, e scegliere con attenzione le parole che si adoperano per esprimersi, specialmente nella sfera pubblica e facendo informazione.
Sembra un’ovvietà, ma nel caso del discorso sulla violenza contro le donne nulla è scontato.
Il testo in questione si chiama Le parole giuste. Come la comunicazione può contrastare la violenza maschile contro le donne, edito da presentARTsì, e a scriverlo (e a pensarlo) sono Luca Martini (già autore di Altre stelle – un viaggio nei Centri antiviolenza, Mimesis) e Nadia Somma, blogger del Fatto e soprattutto da anni attiva nella rete Dire, nonché attivista ed esperta nel centro antiviolenza Demetra.
La questione delle ‘parole per dire’ (o, meglio, come non dire) é centrale per chi opera nel campo della comunicazione: studiose, giornaliste, attiviste, docenti da decenni e in vario modo provano ad attirare l’attenzione sulla elevata quota di sessismo ‘involontario’ che alligna nella comunicazione, ivi e soprattutto quella della stampa e della tv.
La rete di giornaliste Giulia con i numerosi testi, vademecum e carte d’intento rivolti alla categoria; i momenti di approfondimento dedicati al disvelamento degli stereotipi come il progetto di Lorella Zanardo Occhi nuovi per la tv ; il testo di Graziella Priulla Parole tossiche sono solo alcune delle iniziative, nel nostro paese, messe a disposizione di chi fa didattica, ricerca e lavora nella comunicazione con una visione antisessista.
Cosa offre di diverso allora il libro Le parole giuste?
Penso che il testo sia innovativo e interessante perché é stato pensato e scritto in forma di dialogo, e questo lo rende fruibile anche a chi non é del mestiere.
Martini e Somma intrecciano una conversazione scorrevole e non specialistica, nella quale emergono anche elementi di narrazione personale e di vita vissuta attraverso i quali si può comprendere meglio il peso della scelta di ricerca, (e di cura), nell’ uso consapevole del linguaggio per comunicare le notizie.
“Quando assisto a qualcosa o vivo qualche esperienza particolarmente significativa, arriva sempre il momento in cui mi domando come la potrei raccontare…. - sostiene Nadia Somma - Sono solita dire che sono nata femminista… A sette/otto anni a scuola studiando la preistoria sul sussidiario leggevo lo schema dell’evoluzione umana: “l’uomo divenne cacciatore poi agricoltore ” con un linguaggio declinato rigorosamente al maschile e sentivo un moto che definirei di tristezza mentre mi domandavo “ma dove erano le donne?”. Quando racconto questa esperienza durante qualche convegno, cerco tra il pubblico i volti delle donne e c’è sempre qualcuna che sorride e annuisce e poi alla fine dell’intervento mi racconta di avere avuto un’esperienza analoga durante l’infanzia. L’esperienza amara di quello che chiamo il “segregazionismo di genere” (passami il termine che solitamente si riferisce al razzismo) si vive anche attraverso il linguaggio, sino al confinamento in un ruolo che esige la scomparsa dalla storia e dalla possibilità di identificarsi in figure di donne significative che hanno lasciato un segno nell’arte, nella musica, nella pittura, nella letteratura e nella politica ma che la storia degli uomini ha destinato all’oblio”. Allora, secondo la tua esperienza, come si deve raccontare la violenza di genere? Chiede, (e ci chiede), Martini? “Chi ha maggiore conoscenza del fenomeno della violenza difficilmente fa cronaca scandalistica e morbosa (o scandalosa nei contenuti) ma fa qualcosa di prezioso: informazione. - risponde Somma.- E l’informazione può essere formazione per tutte le persone che leggeranno l’articolo e cominceranno a capire che non sono la gelosia, la disoccupazione o il caldo a uccidere, ma un’azione di possesso e controllo”.
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