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Testimonianze e disegni dal Lager femminile di Ravensbrück

Testimonianze e disegni dal Lager femminile di Ravensbrück

La vita a Ravensbrück raccontata da Dunya Breur attraverso le testimonianze e i disegni di sua madre Aat, artista olandese arrestata e deportata in Germania per attività antinazista

Lunedi, 01/05/2023 -

«Ti lasciavi pervadere il meno possibile, cercavi di costruire una corazza attorno a te. E io disegnavo soprattutto compagne di prigionia, perché non riuscivo a disegnare le atrocità. In seguito, mi fu quasi impossibile liberarmi di quella corazza». Questa amara testimonianza della pittrice e disegnatrice olandese Aat Breur-Hibma (L’Aia, 1913–Amsterdam, 2002), deportata nel Lager femminile di Ravensbrück, nel nord della Germania, perché col marito, Krijn Breur, aveva contribuito a fondare il movimento della Resistenza olandese, è contenuta nel bel libro che sua figlia Dunya ha dedicato alle sue drammatiche vicende, uscito in Olanda nel 1983 con il titolo «Een verborgen herinnering» (Un ricordo nascosto).

A quarant’anni di distanza dalla sua pubblicazione nei Paesi Bassi questa testimonianza dura e commovente, tradotta finora solo in tedesco, esce adesso per la prima volta in Italia, col titolo «Riaffiorano le nostre vite. Aat Breur-Hibma a Ravensbrück, racconti e disegni» (2023), edito da enciclopediadelledonne.it, con il sostegno dell’ANED (Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti) nell’ottima traduzione di Franco Tirletti, scrittore e autore, tra l’altro, delle due voci biografiche su Aat e Dunya Breur per l’Enciclopedia delle Donne.

Dunya Breur (Amsterdam, 1942–2009), all’epoca troppo piccola per ricordare, appena ha potuto si è messa a indagare per conoscere la storia della sua famiglia, scontrandosi con il silenzio impenetrabile della madre. Aat, infatti, per molti anni ha taciuto alla figlia le terribili esperienze vissute e il destino toccato a suo marito, il padre di Dunya, fucilato dai nazisti nel 1943, appena venticinquenne. Questo racconto, perciò, è nato dall’urgenza di ritrovare la propria memoria familiare, ma poi ha dato anche voce a una storia collettiva.

Il 19 novembre 1942, quando i genitori di Dunya vengono arrestati, lei ha poco più di quattro mesi e suo fratello Wim un anno e mezzo. Con loro ad Amsterdam viveva anche un bambino ebreo, che Aat e Krijn avevano accolto in casa per nasconderlo e che viene portato via dai nazisti. Wim invece è affidato ai nonni paterni mentre Dunya, che non era ancora stata svezzata, è incarcerata con la madre. Nel giugno del 1943 Aat viene deportata in Germania, ma prima fa in tempo ad avvertire i suoi genitori che prendono la bambina. Dopo essere passata da un carcere all’altro, nel settembre 1943 Aat giunge nel campo di concentramento di Ravensbrück, dove resta prigioniera fino al 30 aprile 1945, quando il campo è liberato dall’Armata sovietica. Con la fine della guerra Aat può finalmente tornare a casa, ma nulla sarà più come prima. Il marito è morto e i figli, troppo piccoli quando era stata costretta ad abbandonarli, la considerano un’estranea. Aat, inoltre, a Ravensbrück ha contratto una grave forma di tubercolosi e per curarsi deve andare in un sanatorio in Svizzera, dove resta per oltre sei anni. I figli vengono cresciuti da famiglie affidatarie e quando Aat rientra definitivamente ad Amsterdam e cerca di ricostruire con loro una vita normale le difficoltà sono enormi.  Come racconta Dunya nel libro: «mi sono sempre imbattuta in un muro di silenzio, nel ‘non sono affari tuoi’, in un abisso di dolore. Ho notato soltanto dopo gli effetti. E, ogni tanto, trovavo un pezzettino del puzzle del mio passato […]. Ho scritto questo libro semplicemente perché dovevo, perché non avevo altra scelta. […] Ho scritto questo libro per le persone che sono morte nei campi di concentramento, sui treni, durante gli interrogatori e nei luoghi delle esecuzioni. Come fosse un piccolo monumento […]. Un ricordo delle persone di cui non abbiamo ricordi».

Si tratta quindi di un racconto a mosaico, dove le rare testimonianze di Aat si intrecciano con le voci di altre deportate a Ravensbrück, in una narrazione struggente e corale. In Italia l’esistenza di questo lager femminile situato in una località amena tra i boschi a nord di Berlino, con un lago (dove venivano gettate le ceneri dei crematori), è forse meno nota rispetto ad altri campi, eppure si calcola che alla fine della guerra, tra le migliaia di donne provenienti da oltre venti Paesi, vi fossero prigioniere circa 870 italiane. Aat, tuttavia, non sembra aver avuto rapporti con loro.

Alle testimonianze si aggiungono i disegni eseguiti da Aat. Alcuni raffigurano l’orrore della vita nel campo, con donne emaciate, vestite di stracci in piedi per l’appello o in fila in attesa di essere condotte nelle camere a gas (a Ravensbrück erano state costruite alla fine del 1944). Molti però sono ritratti delle compagne di prigionia, realizzati anche con l’intenzione di preservarne la memoria per i parenti, qualora fossero morte. Sono volti austeri, pieni di dignità, che trasmettono la forza d’animo di donne olandesi, francesi, norvegesi, russe, polacche, jugoslave, catturate per la loro attività politica. L’arte diviene così anche una forma di resistenza contro la disumanizzazione e la negazione dell’identità personale perpetrate nel lager spogliando le prigioniere dei loro abiti e riducendole a numeri. Naturalmente Aat era costretta a disegnare di nascosto, lo faceva stando sdraiata nella cuccetta superiore della baracca, con una luce pessima. In seguito, i disegni sono stati portati in salvo nei Paesi Bassi grazie a una connazionale, una compagna di prigionia, To Stoltz, anche lei disegnatrice, che poi li ha restituiti a Aat nel settembre del 1945. Aat, però, li ha subito chiusi a chiave in un armadio e solo nel 1980 li ha mostrati a sua figlia Dunya. Nel 1982 i disegni sono stati esposti per la prima volta in una mostra organizzata dal Rijksmuseum di Amsterdam, dove oggi sono conservati.

Questo racconto così doloroso deve, però, essere stato terapeutico se alla fine del libro Aat dichiara: «Penso proprio che abbia senso parlarne ai giovani. Ho speranza e fiducia in questa nuova generazione, la generazione dei miei nipoti». E sembra di poter affermare che, anche per Aat e Dunya, come recita il titolo del libro autobiografico della senatrice Liliana Segre: «la memoria rende liberi».

Per maggiori informazioni: Aat (Adriana Klazina) Breur Hibma | enciclopedia delle donne

Dunya Breuw, Enciclopedia delle donne

 


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