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Sulla terra in punta di piedi, il libro di Sandro Spinsanti

Sulla terra in punta di piedi, il libro di Sandro Spinsanti

Intervista all'autore sulla sfida di mettere la spiritualità non in rapporto con l’ultraterreno, ma proprio con la terra, con la rete dei viventi su di essa

Mercoledi, 24/03/2021 - E’ difficile presentare in poche righe il professor Sandro Spinsanti, scrittore, bioeticista, teologo, psicologo e, per me che lo leggo come guida nell’agire professionale (sono un’infermiera) e nei rapporti interpersonali di diverso tipo.
Nel suo ultimo libro 'Sulla terra in punta di piedi. La dimensione spirituale della cura' (Il Pensiero Scientifico Editore) scritto in collaborazione con la moglie Dagmar Rinnenburger, Spinsanti propone una relazione tra spiritualità e cura. Ci invita a riflettere su ciò che nel nostro quotidiano si intreccia con la spiritualità: arte, ecologia, etologia, nutrimento del corpo e dello spirito e medicina. Si sofferma sul ruolo che abbiamo come umani verso la terra e i suoi abitanti, umani e non umani ed afferma che una spiritualità agita nei molteplici territori che ne intersecano il cammino, può dar vita con pienezza ad un’etica della responsabilità. Affronta infine il delicatissimo tema della relazione con il paziente, che può essere percepito come oggetto o come soggetto della cura, in modo particolare quando la cura avviene in condizioni estreme.

“La dimensione spirituale della cura” è il sottotitolo del libro, che nel titolo invece si annuncia evocando l’immagine di una persona in punta di piedi sulla terra. In che territorio ci vuol condurre la sua riflessione?
Sia le parole che le immagini possono essere fuorvianti. Per molti lo è sicuramente la parola “spiritualità”, che ho voluto evitare nel titolo, ripiegando sulla aggettivazione: la dimensione spirituale. Spiritualità ha un sentore di sagrestia, evoca scenari disincarnati, se non addirittura ostili alla vita terrena e corporea. Anche l’immagine della posizione eretta può essere mal interpretata. Dall’antichità greca l’attribuzione della posizione eretta all’uomo è stato il simbolo della sua supremazia rispetto agli animali. È stata la sigla di un antropocentrismo che siamo invitati a scrollarci di dosso. Di questa transizione culturale si è fatto portavoce autorevole il magistero di papa Francesco con l’enciclica Laudato si’. Propone una fratellanza che non si limita agli esseri umani, ma arriva ad affermare come nuovo programma che “niente di questo mondo mi risulta indifferente”. Né gli animali, né le piante, né il pianeta stesso nella sua rude materialità: perfetta antitesi dell’atteggiamento antropocentrico che abbiamo nutrito nei confronti della terra (con le parole dell’enciclica: “Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla”). È una nuova dimensione della spiritualità, opposta al disprezzo nei confronti della materia, considerata il contrapposto dello spirito. A questo punto l’immagine dell’essere umano in piedi sulla terra ha bisogno di essere abbinata a quella di un uomo chinato verso la terra stessa, in atteggiamento non solo umile, ma di cura. Le due metafore non si escludono reciprocamente, ma si richiamano e si completano. La spiritualità alla quale siamo chiamati nel nostro tempo non può fare a meno né dell’una, né dell’altra. Se l’uomo in piedi è simbolo dell’umano, quello chinato con atteggiamento di cura richiama il modello post-antropocentrico, verso il quale siamo chiamati a transitare. È molto più che un’evoluzione; qualcuno lo chiama anche coraggioso cambio di paradigma.

Lei mette in rapporto spiritualità ed emergenza. Come intende questa relazione?
Spiritualità e sopravvivenza: è una connessione inedita. Eravamo abituati a coniugare il progresso spirituale dell’umanità o con l’attenzione che sposta il centro di gravità dalla vita terrena alla vita eterna – nella prospettiva religiosa – o con un affinamento della nostra qualità umana. Ora invece siamo stati bruscamente confrontati con la sopravvivenza della specie umana. Lo ha affermato, in modo scenograficamente efficace, papa Francesco nella sua preghiera in una piazza San Pietro deserta, durante la prima fase della pandemia, quando ha proclamato che ci appoggiamo su un pianeta ammalato per lo sfruttamento a cui lo abbiamo sottoposto. E ancora, nell’enciclica Fratelli tutti, ha evidenziato come il Covid-19 abbia messo in luce le nostre false sicurezze. Non si tratta, dunque, di chiudere una parentesi e tornare alla normalità: “Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà”. È questa la sfida: mettere la spiritualità non in rapporto con l’ultraterreno, ma proprio con la terra, con la rete dei viventi su di essa. L’alzarci punta di piedi diventa allora una metafora per evocare un peso più leggero. Il contrario dello sfruttamento a oltranza. E proprio qui sta la difficoltà: non ci è richiesto solo qualche piccolo aggiustamento, ma di cambiare il modo di vivere, l’ordine delle priorità. Potremo sopravvivere solo se impareremo a sopra-vivere: ecco, in sintesi, che cosa ci sta chiedendo la spiritualità.

Leggendo il suo libro si è rafforzata in me l’idea che il pensiero spirituale somigli molto al “pensare al femminile”, che lascia spazio al “sentire”. Può confermare questa interpretazione?
È molto opportuno il richiamo a far venire alla luce forme di sessismo nascoste dove meno ce l’aspetteremmo. Anni fa ha fatto epoca un saggio di Carol Gilligan: Con voce di donna. Denunciava l’apparente neutralità delle teorizzazioni che descrivevano lo sviluppo della capacità di formulare giudizi morali nell’essere umano. In realtà – affermava – per secoli la voce che abbiamo ascoltato era la voce degli uomini nel senso di maschi: era il loro modo di concepire i conflitti e le scelte morali, mentre la struttura etica che emerge dal pensiero delle donne è stata considerata come una deviazione dal modello ideale, una specie di fallimento evolutivo; come se nelle donne, rispetto alla capacità di giungere a un giudizio morale, ci fosse qualcosa che non va… Il bias sessista nascosto nell’etica ci induce a stare all’erta riguardo a ciò che potrebbe succedere nella spiritualità. Magari a ruoli invertiti: riversando nella spiritualità stereotipi culturali femminili, opposti a quelli riservati alla mascolinità. È succube di questa insidiosa ripartizione di ruoli anche l’attribuire il compito della cura alla componente femminile della società. Se poi passiamo alla medicina, diventa: curare è maschile, prendersi cura è femminile. La spiritualità è un invito a scompigliare questi ruoli predeterminati. In tutti gli ambiti della cura: da quella della salute alla cura del pianeta. Anche il ripiegamento consapevole sulla propria crescita potrebbe essere visto in chiave femminile, mentre al maschio si riserva l’estroversione nel lavoro, nella scalata sociale, nel potere. L’alzarsi sulla punta dei piedi non è né maschile, né femminile: è una potenzialità da sviluppare, alla quale è chiamato ogni essere umano.

Chi fa volontariato o assistenza religiosa come può accorgersi quando il suo agire, invece di produrre conforto e umanizzazione, può risultare invadente e irritante?
Il proprio ideale di spiritualità, abbinato spesso a un atteggiamento filantropico, porta alcune persone ad avvicinarsi a chi si trova in condizione di malattia o di disagio. È l’atteggiamento promosso dalla visione religiosa del buon Samaritano. Ben vengano comportamenti di questo genere. Ma non senza stare in guardia: anche con le migliori intenzioni si rischia di fare violenza al prossimo. Così come bisognerà fare attenzione a evitare atteggiamenti predicatori e di indottrinamento, particolarmente irritanti nell’ambito sanitario, quando la persona si sente fragile, esposta a una spiritualità invadente. Non è fuor di luogo annotare l’ammonizione che il card. Veuillot, già vescovo di Parigi, dava dal suo letto di ospedale: “Sappiamo fare delle belle frasi sulla malattia. Io stesso ne ho parlato con calore. Dite ai preti di non dirne niente: noi ignoriamo quello che è. Ne ho pianto”. È un invito a prendere le distanze da una spiritualità che nell’ambito clinico viene collocata in un ambito residuale (soprattutto quando prende la forma di: “Non c’è più niente da fare: chiamate il prete”) o è confinata in rituali sacri e frasi scontate che, piuttosto che dare risposte, soffocano le domande stesse. L’invadenza non è solo di marca religiosa. È il caso di ricordare la sferzante ironia con cui Manzoni ha creato il personaggio di Donna Prassede, vecchia gentildonna molto incline a far del bene. “Mestiere certamente il più degno che l’uomo possa fare – annota il romanziere – ma che purtroppo può anche guastare, come tutti gli altri”. Se la spiritualità ci induce a stare in punta di piedi sulla terra, quando si traduce in vicinanza a chi soffre diventa un caldo invito alla maggiore leggerezza possibile. E soprattutto di tradursi in un vero ascolto, come primo e fondamentale atto di comunicazione.

Nei rapporti di cura siamo soliti evocare un comportamento ispirato all’etica, che si differenzia da quello che nasce dal moralismo. La spiritualità aggiunge qualcos’altro?
La differenza tra etica e moralismo è intuitiva. Sappiamo che non tutti condividiamo gli stessi valori etici, anche in società relativamente omogenee. In concreto, per quanto riguarda la cura, la quantità e qualità di interventi auspicabili cambia da persona a persona. Il prolungamento della vita in certe condizioni estreme qualcuno lo può considerare una benedizione, qualcun altro una condanna. Per questo l’etica richiede ascolto, confronto, rispetto, talvolta capacità di negoziazione. Il punto di vista dell’altro va preso in considerazione, anche quando non lo si condivide. Il moralista, invece, è convinto di avere il monopolio di ciò che è corretto fare e cerca in ogni modo di indurre l’altro a comportarsi come lui ritiene che sia giusto. Il momento dell’etica è importante e ineliminabile. Ma non è quello definitivo. Con la spiritualità miriamo all’autorealizzazione umana più completa. I percorsi possono essere i più diversi, sia religiosi che laici. Per esempio, nel libro un’attenzione particolare è offerta all’autorealizzazione spirituale alla fine della vita. Mentre l’etica ci invita a confrontarci con i valori di ciascuno, la spiritualità ci induce a prendere in considerazione il percorso che la persona morente ha fatto nella vita e a renderle possibile di mettere una parola conclusiva che sappia di pienezza.

Si può invocare la spiritualità contro la dis-umanizzazione della medicina? Può essere oggetto di un insegnamento ai professionisti sanitari?
Ci sono modalità di praticare la cura in ambito sanitario che disapproviamo. Sono i trattamenti che non vorremmo per noi stessi, e quindi neppure per gli altri. Se abbiamo in mente crimini e ingiustizie, li dobbiamo contrastare con la legge, facendo intervenire i NAS. Se pensiamo a trattamenti inappropriati e umilianti, dobbiamo ricorrere a strumenti più soft. All’etica, in primo luogo. Pensiamo a quante proposte di cambiamento in sanità sono state condotte in nome della bioetica. In questo scenario la spiritualità si presenta in modo ancor più leggero dell’etica. Non comprende comportamenti che possiamo esigere per legge e neppure quelli che auspichiamo ricorrendo alla “moral suasion”. La cura che prende forma sull’orizzonte dell’umanità nella sua completa fioritura non può essere imposta. La spiritualità non si insegna come una disciplina fa inserire nel curriculum formativo dei professionisti. Possiamo solo auspicare che si creino ambienti ideali nel quali la cura possa essere “sobria-rispettosa-giusta”, come auspica il movimento della Slow Medicine. E che la più alta qualità spirituale si diffonda per imitazione e per contagio.

Sono interessanti le relazioni che stabilisce tra la spiritualità nella cura e le molte angolature da cui ci invita a guardarle. Un esempio è la relazione tra spiritualità e arte. Come tradurre in concreto questa possibilità e renderla fruibile nei contesti di cura, del corpo e dello spirito?
Nella mia riflessione ho dedicato una particolare attenzione a quelli che ho chiamato “incroci di percorso”. Invece di isolare la spiritualità, l’ho messa in relazione con quanto viene proposto e praticato in ambiti che corrono paralleli nella nostra cultura: con la religione – per dire – e con la psicologia, con l’ecologia e con la filosofia. Uno dei confronti più promettenti è proprio quello della spiritualità nel percorso di cura con l’arte. Sembra una provocazione, perché la cura si presenta come questione di scienza; e la scienza si colloca su un terreno del sapere diverso rispetto all’arte. La spiritualità in questo ambito equivale a un invito ad ampliare il nostro sguardo. La prima guarigione di cui abbiamo bisogno è proprio quella dall’impoverimento della nostra prospettiva. La ricerca della salute richiede anche un nostro orientamento verso la bellezza. In tutte le sue forme: quelle che parlano agli occhi e quelle che percorrono la via dell’udito, così come la cura è costituita da parole, non meno che da farmaci. Le espressioni dell’arte che ci vengono incontro sono le più varie: dalla parola letteraria (è appena il caso di menzionare in questo contesto l’importanza della Medicina Narrativa, in tutte le sue articolazioni) alla musica, che ha preso dimora nelle strutture sanitarie più all’avanguardia come ospite fisso; dall’arte grafica (l’”arteterapia” è offerta ai malati in percorsi di cura eccellenti) a quella cinematografica. L’arte è un’ottima compagna di strada della spiritualità; le sue articolazioni sono tante quante la nostra creatività riesce a immaginare.

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