Martedi, 02/03/2021 - Fiumi di parole potrebbero riversarsi nel mare magno dell’analisi sulla condizione attuale delle donne italiane, nonché sui loro diritti, bisogni e speranze. Quando, però, accanto a tali parole sono accompagnate immagini ad esse confacenti, si apre una prospettiva diversa perché siamo sollecitati visivamente a fermarci un attimo per riflettere sul senso di quella raffigurazione e sulla correlata spiegazione. Così è con il libro "SMETTETELA DI FARCI LA FESTA Di discriminazioni in genere", scritto ed illustrato da Anarkikka, alias Stefania Spanò, ed edito da People.
Uscito a ridosso dell’8 marzo, in copertina presenta una donna, sì con indosso una mimosa di ornamento, ma con piglio indubbiamente adirato. La sua rabbia è tutta nella constatazione che, nonostante la Festa della donna, la vita delle donne nel nostro Paese sia così differenziata che si arriva finanche a morire di discriminazioni. Conseguentemente Anarkikka, che è anche il nome della protagonista delle vignette di Stefania Spanò, urla il proprio sdegno con la speranza che la sua non sia una voce isolata, ma che anche altre/i si indignino a tal punto da impegnarsi a modificare tale status quo. Discriminazione è quando le parole, con cui si raccontano le donne, sono viziate a monte di tale narrazione. Ne è esempio l’uso più che frequente di termini sbagliati nei resoconti giornalistici di episodi aventi ad oggetto la violenza di genere. Quante volte leggiamo di femminicidi descritti come causati da raptus di follia, quando invece chi uccide soddisfa consapevolmente il suo bisogno di possedere la propria compagna fino alla fine dei suoi giorni? Discriminazione è quel giudizio preconcetto con cui le vittime di stupro ne vengono considerate corresponsabili, a causa dei loro comportamenti e finanche del modo con cui si abbigliano. Di qui, la corrispondente constatazione del “Se l’è cercata” non diventa conseguentemente la logica conclusione di un pensiero tendente a colpevolizzare la donna sopravvissuta alla violenza maschile? Discriminazione è ogni volta che nelle aule dei tribunali vediamo formulare domande alle vittime di stupro sulla loro mancanza di reattività durante la consumazione della violenza. Perché non si vuole capire che in quei momenti nel cervello della donna abusata si cala un particolare interruttore, quello del contrasto al violentatore, poichè si vuole sopravvivere ad ogni costo, anche a prezzo di non opporre resistenza? Discriminazione è allorchè, in ambito lavorativo, si è costrette non solo a subire molestie e ricatti a sfondo sessuale, ma anche a sopportare la violenza economica di essere sottopagate e deprivate dei propri diritti. E che dire di quando si è obbligate a licenziarsi, perché non si possono conciliare le esigenze professionali con quelle familiari e personali? Discriminazione è quando, sin dalla nascita, alle donne vengono imposti ruoli stereotipati, come se un destino prestabilito dalle convenzioni sociali sia a loro riservato, impedendo qualsiasi altre libertà di scelta. Come leggere diversamente, ad esempio, le tesi miranti a descriverle incapaci di competere con gli uomini nelle disciplina scientifiche? Discriminazione è la difficoltà di potere accedere all’aborto farmacologico, meno invasivo di quello chirurgico, perché vengono imposti limiti non rispondenti a precipue esigenze a carattere scientifico. Ma quali colpe devono espiare le donne che scelgono in libertà e coscienza di interrompere una gravidanza nel rispetto della vigente normativa prevista al riguardo?
Anarkikka illustra queste ed anche altre discriminazioni, che si abbattono come un macigno sulla vita di chi ha l’unico torto di essere nata femmina. Le disegna con i colori cupi della violenza, visto che tali esse sono, perché “la violenza contro le donne non ha confini: si esprime in varie forme e a tutte le latitudini grazie a leggi, consuetudini, norme religiose, regole non scritte, pregiudizi palesemente sessisti, discriminatori, oppressivi” (come nel libro).
La vignettista ci aiuta con il suo lavoro a consolidarci in questa particolare convinzione, senza la quale non potremmo neppure impegnarci ad acquisire contezza che “Di violenza non vogliamo morire. Ma nemmeno vivere”, come scrive in una tavola in cui invita le donne ad uscire dalle gabbie ideali in cui si trovano frequentemente a vivere. Già, perché l’opera meritoria di Anarkikka è anche finalizzata ad infondere semi di consapevolezza in quante ancora credono che, ad esempio, la gelosia sia il naturale completamento di un amore o che di passione si possa vivere fino a morirne.
Una mission sicuramente femminista, tendente a contrastare il modello patriarcale che soverchia le donne e che tende ad annullarle quando invece “le loro capacità e i loro talenti sono occasione di arricchimento per un mondo fossilizzato da millenni in ruoli stereotipati e immutate dinamiche relazionali “(Anarkikka, vedi libro). Un mondo che le umilia oltremodo, fino a farle sentire responsabili dei mancati traguardi di vita prefissesi ed, addirittura, fino a farle avvertire come complici finanche della loro morte.
Come fa il giornalismo italiano quando imputa alla donna, uccisa di femminicidio, la causa dell’efferato crimine, dal momento che aveva deciso di avanzare la richiesta di separazione. Come scrive Anarkikka, quando “le donne si sentono colpevoli per ciò che fanno o dicono, si convincono di essere la causa delle reazioni degli uomini”. Come succede nelle aule dei palazzi di giustizia, allorchè sono costrette a subire un processo nel processo, per verificare l’attendibilità dei loro racconti e testimonianze.
Contro questo continua e pervicace messa in stato d’accusa delle donne ed della loro volontà di essere sé stesse, con i conseguenti diritti e facoltà, il libro di Anarkikka si erge ad emblema di un altro mondo possibile per loro. Se solo si riesca ad acquisire contezza delle caratteristiche del sistema patriarcale vigente nel nostro Paese, si potrà tentare di debellarlo e riuscire a rendere l’Italia più a misura di donna. Indubbiamente "SMETTETELA DI FARCI LA FESTA Di discriminazioni in genere" è una degna tappa di questo percorso di consapevolezza, sì accidentato, ma irrinunciabile per tutte le donne, nessuna esclusa. Perché in questo impegno chi è cosciente di quanto siano discriminate le donne ha l’obbligo di tendere la mano a chi stenta a comprenderlo, in nome della sorellanza, vero e sentito vincolo di solidarietà femminile.
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