Storia di una donna a cui viene addossata un crimine che non ha commesso
Anita trova il modo di esercitare una professione contabile in carcere, si conquista la fiducia delle suore che le sorvegliano: una volta uscita di prigione, c’è già qualcuno che le apre la casa. Nella sua espressione più brutalmente convenzionale, la femminilità è un continuo scomparire, una riduzione al silenzio per aprire più spazio agli uomini, dice Rebecca Solnit. Uscire dal carcere non è vera libertà, è sempre trovare nuovi confini.
Clelia Berlendis l’accoglie, la mette a servizio, ma Anita ancora non è libera di scegliere. Tra le calli di Venezia si muove con passo incerto, inibita dalla stessa luce del sole, esita persino a sedersi ai tavolini di un locale all’aperto. Per Anita si desidera, più di un impiego, un matrimonio che la faccia rientrare in società. E invece lei ha un sogno che ha condiviso con Noemi in carcere: aprire una sartoria, dividersi i compiti tra la sua abilità contabile e quella di ricamatrice straordinaria dell’altra. Perché per una donna la finestra verso nuovi spazi può essere la condivisone di un progetto con una sorella d’elezione. Il progetto proietta l’amicizia fuori dalla dinamica, si propone di diventare frutto della loro creatività, esercizio dei loro talenti. Esercizio di libertà. E’ così che riesce a vivere, Anita: inseguendo il miraggio di un’amica. Rimane impressa l’immagine di lei e Noemi, ormai uscita di prigione, tra un allevamento di bachi da seta, animali che costruiscono intorno a loro stessi un bozzolo, animali che accettano l’immobilità, la prigione, ma si liberano regalando bellezza a mondo: quel filo di seta preziosissimo. È così che Canepa intesse, dentro gli spazi ristretti delle donne, una luminosa promessa.
L’autrice rende il mondo delle donne delle dinamiche relazionali, straordinariamente interessanti perché sfumate. Gli uomini non sempre hanno quello stesso tipo di rapporto. E nella mia testa emergono sempre storie di donne.
Il romanzo racconta parte della storia di Venezia: la Repubblica Veneziana, la sua modernità impressionante. L’unico, grandissimo Stato nazionale che abbiamo avuto in Italia, in tutta quella frammentazione di staterelli sottomessi a varie autorità, argomento periferico nei curricula scolastici. Negli anni Venti di un secolo fa, il momento del grande sviluppo industriale, di Porto Marghera, ma anche dello sviluppo turistico. In quegli anni viene inventato per Venezia proprio un modello economico, da una classe di imprenditori il più famoso dei quali, Volpi di Misurata, ha creato il Festival del cinema.
Altra tematica affrontata è quella della questione della disparità dei compensi fra uomini e donne, che peraltro nel corso dell’ultimo secolo si è attenuata, ma si è risolta. Era un vero e proprio paradigma: la più specializzata delle operaie cent’anni fa guadagnava comunque sempre meno del più generico degli operai maschi.
Anche le carceri femminili hanno un ruolo nella riflessione del romanzo. Le carceri femminili ha avuto sempre un’organizzazione che intercetta un altro interesse dell’autrice: le suore. Le suore hanno gestito le prigioni femminili fino a epoche recentissime: dalla Giudecca sono andate via solo nel 1996. Questo aspetto risponde a un paradigma interessante: l’idea che la donna che trasgredisce la legge pecca due volte, a differenza dell’uomo. Come se venisse meno a un obbligo di coerenza rispetto a un immaginario. Lombroso, in testi che all’epoca erano presi molto sul serio, sostiene che la donna che viola la legge è quasi più in difetto rispetto alla morale che rispetto alla legge stessa. In questa logica, la presenza delle suore nel carcere ha una funzione di rieducazione morale. Certo, si dice che il problema del contenimento della violenza, fra le detenute, è meno grave. Ma se questa doppia morale fosse stata ritenuta valida anche per gli uomini, nelle carceri maschili ci sarebbero stati i guardiani laici, e pure i sacerdoti. Non era così.
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