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Recensione di

Recensione di "Chiamatela Venerdì. Storie di quotidiana violenza domestica" - di Marco Pirrone*

Il libro di Guendalina Di Sabatino "Chiamatela Venerdì. Storie di quotidiana violenza domestica", ed Smasher, Messina 2022

Giovedi, 24/11/2022 - I dati relativi alla violenza nei confronti delle donne, in Italia e nel mondo, continuano ad essere sempre più allarmanti e testimoniano di una violenza sistematica e diffusa, radicata ed espressa prevalentemente nell’ambito delle famiglie e delle relazioni “affettive” (come documentano, nel caso dell’Italia, i rapporti Istat sulla violenza nei confronti delle donne relativi agli ultimi venti anni).
Le sei storie di donne (Venerdì, Liana, la figlia di Aida, Dalila, Elvia, Gabriela nata Yuri) raccolte e raccontate da Guendalina Di Sabatino – con indubbia capacità e bellezza narrativa, pur nella drammaticità dei contenuti esposti – in Chiamatela Venerdì. Storie di quotidiana violenza domestica, edito da Edizioni Smasher nel 2021, sono al contempo nitide testimonianza di questa violenza verso le donne e materiale storico e simbolico che ci interroga sulle radici di questa violenza.
Ho sempre pensato che tra le funzioni degli intellettuali e del lavoro intellettuale vi sia quella di dar voce a chi non ne ha, agli invisibili, ai marginali, agli esclusi; ed anche quella di aiutare ad interpretare l’immediatezza di quella voce che, pur esprimendo le parole ‘giuste’, che vengono dal sentire e dal subire, non sempre diviene espressione di consapevolezza. È questo uno dei meriti del volume di Guendalina Di Sabatino. Attraverso queste sei storie di donne vittime di violenza maschile, patriarcale e familiare, Guendalina ci consegna uno spaccato degli spazi reali e simbolici all’interno dei quali si tessono le trame ambigue, complicate e articolate che danno vita alla violenza maschile ed al contempo permettono anche di subirla. Trame intessute attraverso fili invisibili di disposizioni, norme, sistemi di valori, rappresentazioni dei sentimenti, schemi di premi e punizioni che passano attraverso il linguaggio – della e nella famiglia – non solo verbale ma anche non verbale, cioè corporeo, di cui la violenza fisica è una, ovviamente la più grave, delle espressioni.
Come dicevamo all’inizio di questo contributo le cifre della violenza maschile nei confronti delle donne sono allarmanti e, purtroppo, anche in crescita costante.
Per quanto riguarda l’Italia, l’ultimo report del Ministero dell’Interno segnala che nel 2022 i femminicidi – ovverossia gli omicidi delle donne in quanto donne – sono stati 125, uno ogni tre giorni. Si tratta di un enorme numero di vittime, peraltro in aumento rispetto all’anno precedente. Come se ciò non bastasse, dal mese di agosto – quando il report del Viminale è stato presentato pubblicamente – ad oggi (20.11.2022) vi sono stati altri 14 femminicidi, portando il totale delle donne uccise a 139. Di questi omicidi ben 122, cioè oltre l’87%, sono stati commessi in ambito familiare o affettivo, principalmente dai partner o ex partner di queste donne.
Altrettanto gravi i dati relativi ad altre forme di violenza nei confronti delle donne.
Quasi 16000 sono state le denunce per stalking, 3100 gli ammonimenti del questore verso autori di reato di stalking e 361 gli allontanamenti nei confronti di autori dello stesso reato (sempre stando al report del Ministero dell’Interno, quindi non abbiamo ancora i dati successivi ad agosto 2022).
Sono numeri veramente importanti se si tiene presente che le violenze denunciate dalle donne sono solo la parte più alta di una piramide di un fenomeno molto più diffuso e radicato nel tessuto sociale e familiare italiano.
Analogamente gravi anche i dati che riguardano la situazione delle donne nel mondo.
ll Global Database on Violence against Women, gestito dalle Nazioni Unite, segnala che ogni anno nel mondo vengono uccise più di 50000 donne (teniamo presente che la misurazione del dato è irta di difficoltà per le modalità con cui i vari paesi raccolgono o non raccolgono i dati) e che circa il 58% di questi omicidi vengono commessi da familiari, partner o ex partner. La violenza contro le donne e le ragazze è una delle violazioni dei diritti umani più sistematiche e diffuse. Secondo una revisione globale dei dati disponibili del 2013 il 35% delle donne in tutto il mondo ha subito violenza fisica e/o sessuale da parte del partner.
Come è possibile che, nonostante le battaglie femministe – che hanno ormai una lunghissima storia – e le conquiste in tema di diritti ed emancipazione delle donne che esse hanno contribuito a realizzare, almeno in certi ambiti, la violenza nei confronti del corpo della donna, della sua identità sociale, sessuale e individuale sia così sistematica e diffusa? Non solo, come è possibile che tale violenza non susciti una aperta indignazione e ribellione da parte delle donne stesse ma anche da parte degli uomini – che sono padri e fratelli e figli e parenti e amanti, dunque teoricamente legati da affetti profondi nei confronti delle donne – o almeno di una parte di essi, ad esempio i liberali e i progressisti? Come è possibile che, al di là di alcuni provvedimenti normativi, pur importanti, ma che spesso guardano solo al lato della repressione dei carnefici – con dubbi risultati peraltro, visti i numeri in crescita delle violenze sulle donne – le istituzioni, in concorso con i centri anti violenza e le associazioni femministe, non riflettano profondamente sull’importanza di agire sulla prevenzione del fenomeno che evidentemente riguarda altri ambiti che il solo piano giuridico e legislativo non può abbracciare?
Sono interrogativi inevitabili di fronte alla violenza nei confronti del corpo e della identità sociale, sessuale e individuale delle donne; interrogativi che rimandano al doppio quesito, per me fondamentale, posto da Pierre Bourdieu nel suo Il dominio maschile: come è possibile che ‘l’ordine del mondo così com’è, […] venga più o meno rispettato’ e che, ‘cosa ancora più sorprendente, il fatto che l’ordine stabilito, con i suoi rapporti di dominio […] si perpetui in fondo abbastanza facilmente’?
Lo studioso francese sostiene che il dominio maschile sia l’ambito all’interno del quale è possibile osservare come le ‘condizioni di esistenza più intollerabili possano tanto spesso apparire accettabili e persino naturali’ in virtù di quella che egli definisce la ‘violenza simbolica, violenza dolce, insensibile, invisibile per le stesse vittime’, ovverossia le donne, e che consiste nell’inculcare ‘forme mentali, strutture mentali arbitrarie, storiche, un’operazione che plasma, in qualche modo, gli spiriti e che li rende poi disponibili a effetti di imposizione fondati sulla riattivazione di queste categorie’.
Leggendo le storie delle donne raccontate da Guendalina Di Sabatino crediamo si possano trovare diversi elementi che possono fornire risposte alle domande poste da Bourdieu ed importanti spunti di riflessione su come la violenza simbolica, introiettata dai corpi femminili fin dalla casa di nascita, diventi poi così efficace a tal punto da sembrare naturale e, in taluni casi, un normale portato della stessa idea di amore romantico attraverso la quale vengono costruite le relazioni affettive tra uomo e donna. Ed infatti Guendalina Di Sabatino, nella sua introduzione, racconta come le donne intervistate ‘hanno fatto fatica a riconoscere’ la violenza subita confondendola ‘nel totalizzante amore autosacrificale vissuto da ognuna, una violenza invisibile insita nella stessa ‘coppia fusionale’ idealizzata dall’‘amore romantico’ e fondata sulla ‘indissolubilità del matrimonio’ il quale sancisce ‘per contratto e sacramento, la sottomissione della donna all'uomo, proprietà prima del padre poi del marito’.
Non è nella sede di una recensione che ovviamente è possibile ripercorrere la lunghissima storia della costruzione politica e sociale del sistema patriarcale, né dei dibattiti che la hanno accompagnata nel corso del tempo, compresi quelli che hanno ipotizzato, fin dal XVII secolo, anche l’esistenza di società matriarcali, il cui esempio più famoso è quello dell’opera di Johann Jakob Bachofen. Né è in questa sede possibile ripercorrere tutte le tappe più significative di questi dibattiti o delle interpretazioni storiografiche che riguardano il patriarcato o il matriarcato. Mi sembra però che nell’opera di Marx ed Engels, che attinsero abbondantemente alle ipotesi sia di Lewis Henry Morgan che di Bachofen, si possa rintracciare un importante elemento sostantivo dell’origine del sistema patriarcale e della conseguente strutturazione di uno spazio di sottomissione delle donne al dominio maschile.
Proprio perché in questa sede non è possibile discutere con la dovizia di approfondimenti necessari le tesi, prevalentemente engelsiane, sull’origine del sistema patriarcale – che hanno alcuni limiti, non foss’altro che storiografici – vorrei che esse venissero considerate come descrizione di una situazione originaria avente valore di concetto storico limite, cioè raffigurante una situazione storica a partire dalla quale possiamo immaginare cosa significò e comportò la sottrazione della donna alla vita sociale e collettiva e il suo confinamento nella sfera domestica ormai divenuta privata.
Morgan e Bachofen rintracciavano la primitiva superiorità della donna nel ruolo da essa ricoperto nella «naturale» divisione del lavoro, alla luce della quale l’attività domestica diveniva un fatto sociale e collettivo, e nella anteriorità del diritto materno che stabilisce la certezza della attribuzione dei figli. La nascita del sistema patriarcale, e dunque della conseguente sottomissione della donna all’uomo, è dovuta per Marx ed Engels alle vicende storiche successive ed ai mutamenti nella sfera dei modi di produzione. Quanto più si realizza la proprietà mobiliare dell’uomo quale risultato del suo lavoro extra domestico, tanto più il lavoro domestico come fatto sociale e collettivo viene ridimensionato e diviene ruolo esclusivo della donna confinato nell’ambito della domus dell’uomo, cioè della sua proprietà. Il passo successivo è che in tal modo al diritto materno si sostituisce quello paterno (ricordiamo che il matrimonio monogamico, che viene istituito proprio con queste modificazioni del regime della proprietà, ha valore soprattutto per la definizione della paternità, sempre incerta a differenza della maternità, e dunque per la legittimazione sociale della filiazione paterna). Sono queste le basi economiche e sociali della sottomissione della donna all’uomo, fondate sul controllo sociale e legale della fecondità della donna e di conseguenza anche sul controllo sessuale e della sessualità femminile, di cui ad esempio la gelosia è una delle espressioni simboliche più eloquente ma anche misconosciuta (intendo dire che la falsa coscienza la attribuisce ad un naturale atteggiamento dovuto all’amore quando essa è invece il segno rivelatore dell’idea della proprietà o del possesso dell’uomo sulla donna).
Come già detto, si tratta di un tema enorme e complesso, dalle implicazioni storiografiche, economiche e sociologiche impossibili da trattare qui. Il punto che ci sembra fondamentale, anche alla luce delle storie delle donne raccontate da Guendalina Di Sabatino, è che l’allontanamento della donna dalla vita sociale e collettiva e il suo confinamento nello spazio domestico, divenuto privato e proprietà dell’uomo (in fondo questo è in primo luogo il sistema patriarcale), rende possibile la generazione di quello spazio, che è al contempo fisico e simbolico, all’interno del quale è possibile generare la violenza simbolica di cui parla Bourdieu, poi assimilata e introiettata attraverso disposizioni fisiche, spaziali, corporee e normative. Pierre Bourdieu chiariva bene tutto questo in una intervista del 2019 sulla rivista Doppio Zero (www.doppiozero.com): «le prime esperienze del mondo sociale si [fanno] all’interno di quel microcosmo sociale che è la famiglia: in essa ci sono differenziazioni, c’è una divisione del lavoro e gerarchie politiche, ci sono rapporti di dominio, rapporti di dominazione simbolica, e c’è una polizia simbolica. In certi casi può essere la violenza fisica che gli uomini esercitano sulle donne, e può essere anche violenza simbolica ad esempio il fatto che ci siano delle precedenze: uno si siederà prima dell’altro; ci sono degli sguardi, ci sono ingiunzioni. Dunque c’è tutto un sistema politico già all'interno della famiglia, un sistema politico sessuato e sessuale».
Diversi brani delle storie raccontate da Guendalina testimoniano dell’importanza che assume questo spazio “politico” che è la famiglia, dove le strutture del dominio si intrecciano con le rappresentazioni del sentimento - primo fra tutti quello dell’amore romantico che accompagna storicamente la definizione del matrimonio quale vero e proprio contratto a partire dal diritto di famiglia napoleonico – strutturando codici simbolici e normativi che si insinuano nei corpi e non tanto, o non solo, nella coscienza.
“La casa paterna era in campagna in una zona di case sparse. Mia madre la mattina si doveva svegliare alle cinque per accudire le galline, le mucche e vangare l'orto. Poi iniziava a preparare il pranzo. Mio padre, cinque giorni dopo il matrimonio, ripartì per la Germania e lei rimase sola in questa famiglia di sconosciuti dove, ogni giorno, veniva picchiata da un suocero per qualsiasi stupido motivo: se mancava una forchetta in tavola, se l’uovo non era sodo al punto giusto, se la carne era troppo cotta. Era di proprietà della famiglia del marito e doveva ubbidire a tutti, anche al fratello più piccolo di mio padre, che all'epoca era un bambino di sei anni” (Venerdì).
“In quella situazione di maltrattamenti familiari, mia madre, un parto dopo l’altro, a trent’anni era una donna quasi vecchia, stanca e umiliata, sola nella fatica quotidiana dell’accudimento dei tre figli e della gestione della casa” (Liana).
“Ho avuto sempre una vita sociale molto intensa e, all'inizio, accecata dall’amore, non capivo cosa stesse succedendo, non capivo perché mi vietava di uscire e di incontrare amiche e amici, non capivo perché mi confinava a casa obbligandomi ai lavori domestici. Passivamente ubbidivo!” (Elvia)
E’ dunque dentro questo spazio politico, dai riflessi simbolici e culturali così importanti, che si struttura anche, scrive Guendalina nella sua introduzione, “l’‘amore romantico’, nella sua ricerca di fusione con l'altro, nel suo bisogno di appartenenza intima, [strutturando] legami di dipendenza affettiva distruttiva, nei quali la donna soccombe nel sacrificio di sé, confondendo l'amore con gli insulti, con il controllo, con la gelosia ossessiva, con la violenza fisica. E cede alla promessa di amore eterno che il partner, pentito e addolorato, le rinnova dopo ogni ennesima manifestazione di violenza, convinta che cambierà”.
A proposito dell’amore romantico e delle implicazioni che esso ha rispetto all’origine della violenza maschile, tanto Guendalina Di Sabatino, che Stefano Ciccone, prefatore del volume, e Lea Melandri, che ne cura la postfazione e realizza anche un breve saggio di riflessione sul tema, propongono una ulteriore ipotesi interpretativa: quella del connubio tra amore romantico (fusionale) e violenza. In particolare Lea Melandri, nella sua riflessione conclusiva, dedicata alla Parentela insospettabile tra amore e violenza, ricorrendo anche alla psicoanalisi freudiana, sostiene che ‘gli uomini […] sono i figli delle donne, incontrano quel corpo nella vita amorosa adulta, ma è il corpo che hanno conosciuto prioritariamente nel momento della loro vita in cui sono stati più dipendenti, più inermi, è il corpo che li ha generati, che poteva metterli al mondo o no’. In questa ambivalenza si celerebbe la fragilità, che può diventare ossessione, dell’uomo nei confronti del corpo e della figura della donna. Corpo che, conosciuto in una relazione di dipendenza da bambino, nella vita amorosa adulta, continua la Melandri, l’uomo può trasformare in una relazione di dominio ‘confinando la donna nel ruolo di madre’ e assicurandosi, al contempo, ‘la continuità delle cure della propria infanzia, con mogli che gli diventano madri’. Starebbe in questa dinamica ambivalente l’origine della violenza maschile: gli uomini, liberi nella vita pubblica e sociale, una volta tornati a casa ‘trovano di nuovo una moglie-madre, una donna che si prende cura di loro, come dei figli. La dipendenza sappiamo che può dar luogo a strappi violenti’. Ciò che emergerebbe, conclude la Melandri, è ‘la fragilità e la dipendenza maschile’ ed in essa, nel suo vissuto che rimanderebbe, ci pare, ad una profonda ancestralità, risiederebbero le radici della violenza maschile. La violenza maschile avviene quasi sempre in occasione di separazioni o rotture infatti, proprio perché esse ricorderebbero l’inevitabile ma sofferto abbandono della relazione fusionale con la madre.
Anche in questo caso non c’è lo spazio per affrontare con dovizia tali ipotesi, che rimandano anche alla psicoanalisi, assolutamente importanti e suggestive per comprendere le matrici della violenza e l’ossessività del controllo sulla donna. Mi preme però sottolineare che tali dinamiche di ordine psicologico e psicoanalitico possono avere un senso in quanto affondano le radici in quell’originario “sequestro” della donna entro la sfera privata di cui parlavano Marx ed Engels. Intendo dire che anche le problematiche di ordine psicologico si inscrivono, e sono inscritte, in uno spazio politico, che ha una natura storica, e possono essere assimilate e riprodotte solo dentro di esso: uno spazio politico che ha attribuito il ruolo domestico e della cura esclusivamente alla donna, sottraendolo allo spazio sociale e collettivo e sottraendo la donna a tale spazio. Ove così non fosse, l’ipotesi della dipendenza dell’uomo dalla madre, fondata su una base ‘naturale’ inevitabile, rischierebbe di essere rappresentata come un universale immutabile, mentre io credo che anch’essa dipenda da variabili storico-pratiche. Tale dipendenza infatti potrebbe non essere vissuta come tale, o non con questa assolutezza che porta alle ossessioni di cui parla la Melandri, qualora venissero modificate le condizioni storiche e pratiche entro cui essa si realizza. Ove vi fosse una sostanziale parità di ruoli tra uomo e donna, ossia tra padre e madre, nell’accudimento e nella cura dei figli, durante la crescita e lo sviluppo, questa dipendenza potrebbe non essere vissuta in questa maniera. E’ solo all’interno di una netta divisione dei ruoli, storicamente determinata – in cui la donna-madre rappresenta natura e biologia mentre l’uomo-padre l’autorità, il sociale, la coscienza – che, a mio modo di vedere, è possibile la proiezione da parte dell’uomo del proprio vissuto materno sulla donna quale compagna o sposa, vista di conseguenza o come presenza opprimente l’indipendenza dell’uomo che, avendo confinato la donna nel biologico, le riassegna la funzione di accudimento materna anche nella relazione amorosa, o come soggetto di un abbandono da vendicare nel caso di una separazione o rottura.
Mi sembra dunque più significativo sottolineare che, all’interno di un ordine delle cose che si è sostantivato in questa struttura del patriarcato, tale dinamica psicologica è reale, ma ha una base storica fondata sulla netta divisione dei ruoli dovuta al sistema patriarcale, e dunque si rivela probabilmente anche quale falsa coscienza di un rapporto di dominio che va reimposto dinanzi ad ogni movimento di emancipazione della donna.
Per tali motivi l’invito – fatto in modalità diverse, ma vicine tra loro, da Ciccone, Di Sabatino e Melandri – alla presa di coscienza di qualcosa che non funziona nei modelli culturali attraverso cui strutturiamo le relazioni tra uomo e donna mi appare importante e necessario ma non sufficiente.
Come sosteneva ancora Bourdieu, a proposito dell’importanza della presa di coscienza per abbattere il dominio maschile, la ‘nozione di presa di coscienza è molto
ingenua, in quanto lascia supporre che i dominati – si tratti dei proletari nella tradizione marxista o delle donne nella tradizione femminista – potrebbero liberarsi dalla dominazione attraverso una presa di coscienza dei meccanismi della dominazione. Mentre in realtà questi meccanismi di dominazione sono, allo stesso tempo, sia nell'oggettività (sotto forma di differenziazione nella divisione del lavoro, ecc.), sia in quel che possiamo chiamare la soggettività (nelle strutture mentali, sotto forma, appunto, di categorie di percezione, di valutazione, ecc.).
Queste categorie di percezione e di valutazione sono al di là o al di qua, poco importa, della presa di coscienza. In fondo, la dominazione maschile è una costrizione attraverso il corpo. […] In sostanza, ciò significa che le
disposizioni sono maniere di essere permanenti, inscritte in noi attraverso
l'apprendimento, attraverso le ingiunzioni insensibili del mondo sociale, della famiglia ecc., e sono molto difficili da trasformare. Si tratta dell'exis nella tradizione aristotelica, o dell’habitus nella tradizione tomista. Habitus è la traduzione latina dell'éxis aristotelica. Lo dico per ricordare che si tratta di qualcosa di acquisito: "éxis" viene da "échein", avere; "habeo" è qualcosa di acquisito attraverso l'apprendimento, quindi qualcosa di costituito storicamente; il che implica che è storicamente decostituibile’. Infatti, qualcosa di storicamente costituito può sempre essere decostituito, trasformato dalla storia’.
Mi si perdonerà la lunga citazione dello studioso francese. Ma essa mi pare molto chiara per ciò che intendo sostenere.
Perché infatti l’uomo, che ha questo potere, dovrebbe prenderne coscienza e rinunciarvi? In nome di che cosa? Di un puro atto volontaristico?
E d’altro canto perché moltissime donne, come tutte quelle intervistate da Guendalina Di Sabatino, tranne una, pur prendendo coscienza di certi modelli culturali e di certi meccanismi relazionali, e pur arrivando ad una certa consapevolezza attraverso i percorsi psicoterapeutici intrapresi, non denunciano i loro aguzzini? Perché moltissime donne, nonostante alcuni diritti acquisiti, nonostante alcune norme che nel frattempo sono state istituite, nonostante alcune forme di emancipazione conquistate, non si ribellano apertamente alla violenza e non denunciano gli uomini violenti?
Probabilmente proprio perché, come sostiene Bourdieu, le disposizioni con cui si realizza la dominazione, che è dominazione attraverso il corpo, diventano permanenti, in quanto apprese. Il che non significa che siano immutabili, ma che la loro trasformazione richiede una lotta e un lavoro di modificazione di strutture – materiali e simboliche – e di ruoli e di pratiche che deve avere un valore e una portata storica, riguardando in primo luogo la famiglia, dove avvengono i primi e più profondi processi di apprendimento dei dispositivi della violenza simbolica, e poi la scuola, le istituzioni, il mercato del lavoro, gli ambiti relazionali.
In questa ottica credo che il primo obiettivo debba essere quello di una sostanziale emancipazione generale ed economica della donna, vera chiave di volta per destrutturare il regime patriarcale che si fonda in primo luogo sulla sottrazione della donna alla dimensione della vita sociale e collettiva.
Per tutti gli spunti di riflessione che il libro di Guendalina Di Sabatino offre, anche attraverso le storie di donne che racconta, ad essa va la nostra gratitudine e se ne consiglia vivamente la lettura. Del resto, come abbiamo già detto, fa parte del lavoro di trasformazione dello stato di cose esistente far emergere le storie invisibili delle donne vittime di violenza. E’ questo infatti uno dei presupposti fondamentali della conoscenza perché alla presa di coscienza segua l’agire concreto di trasformazione dei meccanismi e dei dispositivi spaziali e relazionali entro cui la dominazione maschile si genera e si esercita.

*Marco Pirrone, Ricercatore di Sociologia generale presso il Dipartimento "Culture e Società" dell'Università degli Studi di Palermo 

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