Mercoledi, 25/12/2024 - È stranamente passato inosservato, in questo 2024, un anniversario di una certa importanza storico-filosofica. Il 20 novembre 1984, all’età di ottant’anni, la filosofa andalusa Maria Zambrano, tornava in Spagna dopo un esilio durato ben 46 anni.
Nel 1939, quando aveva 35 anni, come molti e molti altri spagnoli, era stata costretta a lasciare il suo Paese con l’avvento del franchismo. Da lì era iniziata la sua lunga peregrinazione tra Parigi, L’Avana, Roma e il Messico.
È una filosofa che oggi, in tempi di brutte canzoni e di crollo verticale di tanti valori, ed alle prese con l’avvento del digitale e dell’IA in tutti i campi della vita, andrebbe letta e riletta, perché ella, già alla fine degli anni Trenta, aveva pienamente compreso la crisi della modernità e di quel modello intellettualistico e razionalistico imperante nella filosofia da Cartesio in poi. Un modello concettuale astratto, che aveva eretto dogmi logici dalla presunta sapienza e conoscenza. Un modello che classifica, ingabbia, pone dei limiti, e che, come tale, è incapace di cogliere ed immergersi nel movimento incessante della vita, perché la vita sfugge sempre a dogmi e classificazioni, a sistemi che pretendono di ingabbiarla una volta per tutte. Un pensiero moderno, derivato anche dalla psicanalisi, che ha tentato di fornire soluzioni alla sofferenza umana, creando invece una nuova religione: quella del benessere a tutti i costi, dell’omologazione, del controllo sugli individui, in cui scuola, manicomio, ospedale e prigione sono gli ambiti in cui la diversità è coercizzata e piegata da una morale penalizzante, così acutamente indagata da Michel Foucault.
In un’opera giovanile, “Orizzonte del liberalismo”, Maria Zambrano affermava che l’avvento della tecnologia e l’espansione industriale, se aveva dato all’Umanità maggior potere sulla Natura, non aveva però contribuito al suo effettivo avanzamento morale e politico (il riferimento era senza dubbio alla situazione spagnola che ella stava vivendo e per la quale si impegnava con scritti e attivismo politico).
Insomma, la filosofia tradizionale ha cercato di catturare la vita nel lògos, come si cerca di imprigionare l’acqua in un setaccio. Ma la vita, come l’acqua, sfugge a questa presa. E la parola deve confrontarsi costantemente con l’esperienza. Come lei stessa affermava: «Io non ho vissuto di idee ma di esperienze. La mia vera vocazione è stata quella di essere, non di essere qualcosa».
Maria Zambrano, filosofa nel senso più alto e più puro del termine, ha rivendicato i diritti dell’immaginazione, della visione, della rivelazione e del cuore. La sua filosofia non vuole dare spiegazioni, ma è un umile mettersi in cammino e seguire l’uomo nella sua stupidità, nella sua tragedia, nel suo ritrovarsi per un attimo nella gioia. La parola ha una carica simbolica che avvicina poesia e filosofia. La filosofia di Zambrano non analizza, ma osserva, testimonia, si mette in ascolto, si esprime attraverso una parola poetica che resta umile e povera. È un immergersi nel movimento vivo e palpitante della vita, in cui sono rivalutate la dimensione mistica e quella poetica.
Armando Savignano, che ha curato il volume “Maria Zambrano. Opere. Poesia e filosofia”, edito nel 2024 da Morcelliana, scrive: «Per Zambrano non c’è poesia senza pensiero né ragione senza poesia. Solo l’unione di entrambi può indicarci il vero cammino» (p.5). Mentre Massimo Cacciari, da sempre estimatore della grande filosofa, definisce il suo pensiero «un sapere dell’anima» (p. 335).
In una delle sue opere, Maria Zambrano scrive:
«Il dramma della Cultura Moderna è stata la mancanza iniziale di contatto tra la verità della ragione e la vita, che è anzitutto dispersione e confusione e si sente umiliata di fronte alla verità pura. Ogni verità pura, razionale e generale, deve [dovrebbe] sedurre la vita; deve [dovrebbe] farla innamorare. La vita ribelle e confusa ha attraversato l’epoca del sortilegio e per vanificarlo deve verificarsi l’innamoramento, che è a sua volta rapimento, sospensione, anzi, qualcosa di più: è sottomissione a un ordine e più ancora: è essere vinti senza serbare rancore. E la verità pura umilia la vita quando non ha saputo innamorarla. Perché la vita è passione e ricettività continua» (MARÍA ZAMBRANO, La confessione come genere letterario, trad. it. di Eliana Nobili, intr. di Carlo Ferrucci, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 34).
Maria Zambrano nasce il 22 aprile 1904 a Vélez-Málaga, in Andalusia. I suoi genitori sono entrambi insegnanti. Si iscrive alla facoltà di Filosofia dell’Università di Madrid. Sono gli anni Venti ed in quell’epoca è del tutto inconcepibile che una donna si dedichi a questo genere di studi. E così, lei, in facoltà, viene vista dai suoi colleghi maschi alla stregua di un oggetto misterioso. Qui, Zambrano frequenta le lezioni di José Ortega y Gasset e di Xavier Zubiri. Fondamentale per la sua formazione è poi l’amicizia con Antonio Machado, grande poeta e scrittore spagnolo.
Nel 1931 diventa assistente della Cattedra di metafisica. Si ammala di tubercolosi e per diverso tempo è costretta all’immobilità. Segue l’esperienza dell’esilio, che ne plasma il carattere e ne modella in modo particolarissimo il pensiero filosofico.
Muore nel 1991, consegnando «all’Occidente un’eredità impegnativa: realizzare un mondo effettivamente democratico, dove ciascuno e ciascuna possa essere persona, unica realtà che davvero conti, perché solo nella persona il futuro si fa strada».
L’aspetto della gioia è anch’esso una cifra della sua ricerca filosofica. Nonostante la Zambrano sia stata di salute cagionevole e nonostante i patimenti fisici e morali, ella era convinta che la conoscenza «dovrebbe sempre sgorgare dall’allegria e dalla felicità».
Confrontarsi con il pensiero di Maria Zambrano è davvero un’esperienza che avvolge l’anima, in cui la ragione danza col mistero. È forse questo il lascito più grande della sua esperienza di esiliata: la ragione, da sola, non basta. Abbiamo bisogno di sentire, di ragione e poesia, dell’unione tra pensiero e sentimento. Abbiamo bisogno di cuore per entrare nel mistero della vita. Anche e forse soprattutto in tempi di Intelligenza Artificiale. La ragione poetica è proprio l’arte di partecipare alla danza della vita.
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