Il libro 'Sebben che siamo donne-Storie di rivoluzionarie' ha offerto l’occasione per divulgare il motivo di una scelta fatta in piena consapevolezza ed autonomia
Lunedi, 07/05/2018 - Può capitare che, recandoti alla presentazione di un libro, la descrizione sommaria del suo contenuto ti induca a volere leggerlo per intero. Allora lo acquisti e, se ci tieni, te lo fai autografare dalla scrittrice. Finora, però, non mi era mai capitato che nella correlata dedica ci fosse un incitamento, per così dire, a carattere socio-politico. Difatti Paola Staccioli, autrice di 'Sebben che siamo donne', sottotitolato 'Storie di rivoluzionarie', ha così scritto: “Perché ricordare il passato è importante e soprattutto la storia delle donne rivoluzionarie, anche per capire il presente”. Il libro, così come spiegato dalla sua narratrice, tratta di storia “raccontando le storie” di dieci donne, militanti politiche, che hanno deciso di imbracciare la lotta armata.
“Dare la parola a queste combattenti non significa approvare la loro scelta”, ma riflettere sui motivi che le hanno indotte a prendere le armi per lottare per una società più giusta, sacrificando la loro stessa vita a questo obiettivo. Fare conoscere le loro storie significa comprendere il motivo per il quale considerarono quella scelta come l’unica modalità attraverso cui costruire un mondo migliore. Certo la loro fu un’opzione radicale, non condivisibile, ma, pur prendendo le distanze dal loro estremismo, a detta di Paola Staccioli, bisognerebbe comunque leggere quanto accaduto a quelle donne alla luce dell’impegno a difesa dei diritti, in un contesto politico quale era quello a cavallo tra gli anni ’70 e 2009. Si è partiti dalla storia di Elena Angeloni, morta nel settembre del 1970 in un attentato contro il regime dei colonelli in Grecia, per raccontare poi di Margherita Cagol, fondatrice della Brigata rossa insieme al marito Renato Curcio, uccisa in un rifugio di montagna da parte delle forze dell’ordine. Stessa sorte per Anna Maria Mantini, di cui Vasco Pratolini scrisse: “Lei assassinata, ma che il mondo vorrebbe assassina”. Come anche Barbara Azzaroni, facente parte di Prima Linea, morta in un bar a seguito di un conflitto a fuoco con la polizia. Stessa sorte per Laura Bartolini, uccisa a Bologna in una rapina ad una gioielleria. Maria Antonietta Berna, militante di Autonomia operaia, perse la vita mentre stava preparando un ordigno esplosivo. Invece, Annamaria Ludmann, appartenente alle Brigate rosse, fu uccisa insieme ad altri tre compagni di lotta a seguito di un blitz dei carabinieri nel suo appartamento. Wilma Monaco, militante dell’Unione dei Comunisti combattenti, morì a seguito di un attentato ad un collaboratore di Bettino Craxi.
Destino diverso spettò a Maria Soledad Rosas, anarchica, che si suicidò in una comunità ed a Diana Blefari Melazzi, militante rivoluzionaria de Partito comunista combattente, che si tolse la vita in carcere.
Ad avviso dell’autrice del libro è importante sapere che queste donne sono diventate rivoluzionarie ed hanno scelto la violenza come modalità d’azione politica “in nome di un desiderio collettivo di giustizia sociale, della convinzione di poter tracciare a mano armata le linee di un futuro migliore”. Facevano parte di quella collettività ideale che metteva al primo posto la tutela dei diritti, al di sopra di tutto e tutti, anche della vita degli altri nonché propria. Una scelta indubbiamente radicale, ma proprio l’estremizzazione del loro impegno politico ci dovrebbe portare a tentare di comprendere il complesso contesto storico in cui hanno vissuto per non relegarle al ruolo di mere criminali.
Deve essere certamente condannata la specifica modalità di militanza, ma altrettanto dovrebbe essere capito perché volevano adoperarsi per un mondo migliore. Specificando che nella scelta della lotta armata e della clandestinità queste rivoluzionarie hanno speso la propria autodeterminazione in piena emancipazione rispetto agli uomini che avevano al fianco. Difatti la consapevolezza di andare incontro a rischi e pericoli era piena in loro e non era per nulla condizionata da una sudditanza ideologica a quanti facevano parte delle formazioni politiche di riferimento. A dimostrazione che le donne potevano sperimentarsi nell’impegno politico in piena autonomia e coscienza, libere di sobbarcarsi delle incombenze di quell’impegno anche a costo di morirne.
La presentazione del libro di Paola Staccioli, avvenuta il 20 aprile scorso grazie alla fattiva iniziativa dell’associazione “Ipazia, la mente che non mente” di Sala Consilina (Sa), si è ulteriormente specificata per gli intermezzi in cui Silvia Baraldini ha narrato della sua esperienza politica statunitense, connotatasi per la condanna a 45 anni di pena detentiva. Rientrata in Italia nel 1999, ha avvertito forte l’esigenza di descrivere il proprio percorso di militanza, in modo che fosse comprensibile gli aspetti più rilevanti delle sue scelte politiche. Alla fine di tali interventi Silvia Baraldini ha precisato che “Sebben che siamo donne-Storie di rivoluzionarie” è finalizzato non solo “a recuperare una memoria”, ma anche ad evidenziare problematiche attuali. Come la circostanza che nella carceri italiane ci sono ancora venti persone che, non avendo voluto abiurare le loro opzioni politiche, sono sottoposte al regime del 41-bis, da lei definito come distruttivo dell’individuo.
Concludendo l’iniziativa culturale, l’autrice del libro ha spiegato che “nel sentire comune una donna prende le armi per amore di un uomo, per cattive conoscenze. Mai per decisione autonoma. Al genere femminile spetta un ruolo rassicurante. In un’epoca in cui sembra difficile persino schierarsi «controcorrente», le «streghe» delle quali si racconta nel libro emergono dal recente passato con la forza delle loro scelte”. E, allora, mi pare di comprendere il senso della dedica di Paola Staccioli. Richiamare ad un impegno politico le donne presenti, incitarle a modalità legittime di militanza, per tentare di dare il proprio contributo alla difesa di quei diritti conquistati nel passato più o meno recente. Diritti da salvaguardare ancora nel presente per trasmetterli alle future generazioni come nostro patrimonio ideale.
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