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PREMIO LETTERARIO NAZIONALE CLARA SERENI / GIOVANNA MICELI JEFFRIES

PREMIO LETTERARIO NAZIONALE CLARA SERENI / GIOVANNA MICELI JEFFRIES

'La cura': classificato al secondo posto nella sezione raccolta di racconti inediti

Mercoledi, 06/01/2021 - Giovanna Miceli Jeffries è nata a Ribera (AG). A 18 anni emigra con la famiglia in Canada e in seguito negli USA. Ph.D. in Lingua e Letteratura italiana, è prof. emerita presso la University of Wisconsin, Madison. Studiosa e autore di libri e di numerosi saggi critici su autori e autrici italiani contemporanei, ha co-tradotto in inglese "Casalinghitudine" di Clara Sereni (Keeping House. A Novel in Recipes). Esordisce nella narrativa nel 2018 con la raccolta "Bitter Trades. A Memoir." Si è classificata al secondo posto nella sezione Raccolta di racconti inediti della I edizione del Premio Letterario Nazionale Clara Sereni con la raccolta "La cura".

LA CURA
estratto

Un mese dopo il nostro arrivo a Montreal, lasciammo l’alloggio temporaneo che avevamo trovato sopra un piccolo supermercato e traslocammo in un appartamento nuovissimo. Si trovava in una larga ma quieta strada che intersecava la commerciale rue Sauvé, fiancheggiata da tante villette duplex ognuna con il proprio prato puntellato di alberi. Sembravano davvero le casette in Canadà della canzone, tutte nuove, tutte identiche.
Il nostro appartamento era di una famiglia campobassanache viveva in Canada da alcuni anni, e che si considerava fortunata di trovarsi lì invece che in qualche periferia industriale della Germania o della Svizzera. Nella zona nord, la zona nuova della città, i campobassanie più in generale gli immigrati dal Sud Italia costituivano la maggioranza dei proprietari e degli inquilini di duplex e triplex;era ungrande quartiere, dal nome impronunciabile e gravido di acca, dominato e protetto dalla chiesa di Nostra Signora di Pompei, appena completata.
I proprietari del nostro duplex occupavano il pianterreno e il seminterrato, completo di cantina e sala da gioco, e naturalmente il praticello che si aprivasul retro,e che era stato convertito in un rigoglioso orto. Affittare il primo piano permetteva loro di coprire mutuo e imposte immobiliari. I Di Martino erano due genitori sessantenni etre figli ormai grandi, due maschi scapoli, Diamante di trent’anni e Angelo di venti, e Filomena, la figlia mediana.
Quando arrivammo, fu Diamante a farci fare il giro dell’appartamento, mostrandoci il funzionamento di qualunque cosa, dal termostato alle maniglie delle finestre, e raccomandandoci infine di usare le pantofole in casa, per evitare di graffiare o di sporcare il pavimento in legno. Mio padre si sforzava di annuirgli e non appena lo vide ridiscendere, con uno dei suoi gesti di sprezzo, ci spiegò che“quello” voleva che usassimo le pantofole solo per prevenire il rumore dei nostri passi sulle loro teste. Mio padre cominciò a lamentarsi del fatto che tutte le stanze, tranne la cucina, avevano il pavimento in legno, che per lui era assolutamente poco stabile e non si spiegava perché costruissero le case in quel modo; non sarebbero durate, profetizzava. Noi ragazzi non avevamo mai abitato in una casa in cui tutti i vani fossero sullo stesso piano, era davvero inusuale, ma a dire il vero ci piacque molto. Mia madre s’innamorò subito della nitidezza dell’ambiente, del biancore delle pareti, della lucidezza del pavimento in legno;tutto le sembrava immacolato, pulito e impeccabile. Dal momento che eravamo in affitto, divenne ancor più d’obbligo per leiil voler preservare e mantenere costantemente la perfetta immacolatezzadell’appartamento, quasi si aspettasse che i proprietari avrebbero eseguito regolari ispezioni.
Tranne che con Filomena, durante il primo inverno in quell’appartamento–il nostro primo inverno canadese–non ci furono vere e proprie frequentazioni con i Di Martino. Diamante, il proprietario effettivo del duplex, era molto riservato; Filomena ne parlava con evidente affetto, e rispetto: un gran lavoratore, diceva, “un uomo buono”, che non cercava divertimenti, e dedito a tal punto alla famiglia da rimandare il momento in cui avrebbe formato la propria. Angelo era più socievole e gli piaceva vestire bene la domenica,ma le chiacchiere con me e mia sorella si limitavano aquando ci incontrava sull’uscio, chiedendoci con briodove stavano andando le signorine siciliane.
Filomena, invece, sembrò cercarci fin da subito. Il giorno dopo il nostro trasloco, salì a salutarci e quando seppe che io e mia sorella avevamo un diploma d’insegnante, sfoderò il suo miglioreitaliano. Era spigliata e calorosa.La carnagione scura,i capelli nerissimi, folti, che le scendevano sotto le spalle e una bocca carnosa come un’albicocca. Un neo poco alla destra del labbro superiore conferiva ulteriore distinzione al suo perfetto ovale. Camminava tirandosi leggermente la gamba destra.

Era la fine maggio del 1966. Filomena aveva cambiato lavoro un paio di volte da quando avevamo traslocato nell’appartamento, l’autunno precedente. Adesso lavorava nella mia stessa fabbrica di abbigliamento,come operaia specializzata su due macchine da cucire, una che rifiniva le cuciture e l’altra che inseriva bottoni.
Il mattino era splendido, io e Filomena eravamo sull’autobus insieme ad altre ragazze, quasi tutte italiane, che parlavano animatamente fra loro prima che il lavoro –e il rumore assordante di centinaia di macchine da cucire elettriche in corsa precipitosa – le avrebbe costrette al silenzio. Io guardavo i lati della strada entusiasta del miracolo della primavera. Non mi saziavo di riempirmi gli occhi del fogliame degli aceri e dei tigli, che avevo solo conosciutonelle foto delle riviste illustrate; dei gerani rossi nei vasi colorati alle finestre,deiprati davanti alle case con quell’erba verdissima! Tutto quello splendore era esploso in un batter d’occhio: un giorno gli alberi erano spogli, il giorno dopo spargevano foglioline, il giorno dopo ancora erano traboccanti. Era una primavera di meraviglie, che stava lenendo la mia nostalgia per la perdita del paesaggio, del potente profumo di zagara, e dei rigogliosi ventagli bianchi e rosa degli alberi di mandorlo e di pesco nella primavera siciliana.
Quella mattina Filomena indossava una maglia bianca lavorata all’uncinetto, sicuramente di fattura della madre, che creava un contrasto drammatico con i capelli neri. Osservavo l’effetto cromatico del colorito scuro del volto, il neo, i capelli e gli occhi neri contro il bianco della maglia. L’autobus si avvicinava alla fermata di rue Saint Hubert,eravamo a poco meno di un chilometro dalla nostra fermata, boulevard Saint Laurent, dove avremmo preso un secondo autobus per altricinque isolati. Vidi Filomena mettersi la mano alla bocca come se stesse per vomitare e mi accorsi che sudava, e subito dopo si mise l’altra mano, che inforcava la borsa, sulla fronte. Impallidì di colpo, e mi guardava con gli occhi sbarrati. Quando l’autobus si fermò, mi accorsi che roteava gli occhi, la borsa le era caduta dal braccio. Mi prese la mano e ansimante mi disse: “Scendiamo, usciamo fuori!”.
“Ma la nostra è la prossima”, le risposi.
Zoppicando si avviò verso l’uscita, tenendosi a me con la mano, quasi a tirarmi via con sé. Il mio primo pensiero fu che, scendendo con lei, avrei perso la coincidenza con l’autobus successivo, sarei arrivata al lavoro in ritardo, e anche se la scheda oraria avrebbe registrato solo dieci minuti dopo le otto, mi avrebbero detratto mezz’ora dalla paga settimanale. Visualizzavo la scena: gli occhi torvi e contrariati di Camille, il caporeparto, la paga settimanale ridotta, lariprovazione di mia madre. Lavoravo trentasette ore e mezzo a settimana, in piedi, con le braccia in aria, a tagliare velocemente fili che pendevano da gonne e vestiti, e rubando di tanto in tanto qualche secondo per tirare giù le braccia e fare respirare le spalle e il collo. Ci mancavano solo le ramanzine di mia madre.
Ero disorientata. Le altre ragazze ci guardavano e io, trascinata da Filomena, mi ritrovai giù dall’autobus. Mentre Filomena barcollava lentamente verso l’erba che costeggiava il marciapiedi, mi accorsi che dalla bocca le usciva una bava quasi spumosa; subito si inginocchiò e si distese per terra. Mi misi a gridare e mi rivolsi alle ragazze che dai finestrini dell’autobus ci guardavano senza capire. Le braccia, il corpo di Filomena sussultavano e la schiuma le si accumulava sotto il mento. Ero paralizzata, pensai che stesse morendo. L’autobus andò via, mi girai intorno per cercare qualcuno; una giovane donna che spingeva una carrozzina accorse immediatamente. In ginocchio, le sollevò il capo e l’adagiò sul suo grembo e alzando gli occhi verso di me, disse: “Épilepsie, c’est dangereux. Ou est-ce-qu’elle allait? Il faut l’amener à l’hopital ou chez-elle”. Fui presa dal panico. Perlustrai con lo sguardo la strada in cerca di un tassì. Filomena sembrava scuotersi un po’ meno e cominciò a muovere le labbra come se volesse parlare. Le presi tutte e due le mani, erano fredde e tremavano: “Ci sono io con te”, le dissi, “ti sta passando e ti porto a casa”.
Dieci minuti dopo, la signora con la carrozzina riprese il cammino lungo il marciapiedi, Filomena seduta sull’erba si puliva le labbra e il viso con un fazzoletto.
“Ho una malattia” esordì senza guardarmi. “Non mi era mai capitata una crisi in autobus. Ce l’ho da quando ero piccola. I miei mi hanno portata in pellegrinaggio in diversi santuari, ma non se n’è andata e non se ne va. A quattordici anni mi hanno mandata in un collegio di suore, un posto per bambini orfani o con altri difetti. D’estate ritornavo a casa per due mesi. Al collegio ci facevano studiare, per questo parlo meglio dei miei fratelli. Mi piaceva leggere e scrivere e mi hanno insegnato anche tante preghiere e inni. Quando la mia famiglia ha deciso di emigrare in Canada, pochi mesi prima di partire, sono ritornata a casa”.
Erano le 8.45 quando Filomena si alzò togliendosi i fili d’erba che si erano attaccati alla maglia bianca e alla gonna. Io le tenevo la borsa, aspettando che mi dicesse cosa dovevamo fare. Mi chiese di fermare un tassì in modo da potersene tornare a casa. Io potevo aspettare l’autobus seguente e andare al lavoro, disse.

Rientrando dal lavoro alle cinque del pomeriggio, mentre salivo la scala esterna del duplex, mi accorsi che le tende pesanti dell’ampia finestra del salotto dei Di Martino erano chiuse. Quando mi affacciai dal balconcino della cucina che dava sulParc des Hirondelles, vidi Filomena distesa su una coperta sul fazzoletto d’erba rubato all’orto dietro casa. Il verde intenso di maggio scintillava nella luce nordica di quell’immenso parco. Filomena portava un prendisole a colori, una fascetta bianca ai capelli le liberava la fronte. Sentì i miei sandali ciangolare su balconcino e alzò gli occhi verso di me, mi sorrise e mi fece cenno di scendere.
Si stava riposando e si sentiva meglio, disse. Non le chiesi spiegazioni e mi sedetti accanto a lei sulla coperta. Il viso ancora un po’pallido evidenziava una tenue linea di peluria intorno al labbro superiore. Gli occhi più aperti e larghi del solito erano stanchi, scuri e dolci. Propose di fare una passeggiata nel parco, era così bello tutto quel sole, e l’aria. Aprì il cancelletto dell’orto e ci avviammo lentamente, la sua andatura zoppicante più pronunciata sul terreno irregolare. Ci fermammo alla collinetta in fondo e ci sedemmo con la vista sulla nuovissima chiesa di Nostra Signora di Pompei, che s’innalzava con il suo tetto alato. Era incredibile che dietro il nostro appartamento si aprisse quel mare di verde.
“Dicono che la malattia si può curare”, disse.“Potrebbe andare via se fossi sposata. Se potessi sfogare…, sai come si dice, quello che le donne sposate fanno con gli uomini. ‘L’uomo buono’ lo sa. Viene da me non come fratello ma come uomo…per aiutarmi”.
Le parole erano interrotte da sospiri.Sembrava una sorta di quieta angoscia.Gli occhi, fissi in basso sull’erba, si alzarono verso i miei. Mi girai per guardare intorno,lo facevo sempre quando ero sopraffatta dall’imbarazzo, dalla vergogna o da un incontrollabile turbamento. Avevo davanti a me l’immagine“dell’uomo buono”, il fratello, Diamante, il suo volto,la sua calma, la sua riservatezza. Dal tono delle sue parole sembrava normale quello che stava dicendo, o almeno così percepii, o forse preferii percepire. Non dissi una parola ed evitai i suoi occhi, non sapevo neanche se avrei dovuto rispondere o si aspettasse una risposta da me. Feci finta di non aver sentito “l’uomo buono”, di non aver capito di chi parlasse.Dopo un po’, per spezzare il silenzio, le chiesi se era mai stata fidanzata. Filomena mi rivolse un lieve sorriso che scoprì il biancore dei denti e l’incongrua vivacità dei piccoli incisivi ribelli. “Tu credi veramente che qualcuno vorrebbe fidanzarsi con me, così come sono?”. Le risposi con uno slancio sincero e appassionato: era una giovane donna attraente, una lavoratrice operosa, gli attacchi passavano rapidi,era già in piedi a passeggiare, le feci notare.
Il viso le si illuminò, ma solo per poco. “Hai notato che porto sempre calze spesse, anche con il prendisole? Vedi questa?” disse indicandomi la gamba.“È una protesi, la tolgo quando vado a letto e la rimetto al mattino”. Di nuovo, volsi gli occhi intorno a cercare un qualcosa che potesse distrarmi e distrarci, che non avesse niente a che fare con quello che sentivo. “Mi ci sono abituata dopo tanto tempo”, continuò. “Cammino agilmente, ormai, la gamba destra è snella e sembrano uguali. Avevo otto anni quando ho avuto l’incidente. I miei hanno aspettato una settimana prima di portarmi dal dottore nel paese vicino, ma nel frattempo si era sviluppata una cancrena ed è stato necessario amputare. Il primo attacco di epilessia è arrivatosei mesi dopo, e tutti hanno detto che era colpadell’operazione”.Sua madre non si era mai rassegnata alla sua condizione, aggiunse; una donna fiera, risoluta e impaziente, non riusciva ad accettare il difetto della figlia. La sgridava quando inciampava o era lenta nei servizi di casa. “È stato meglio quando mi hanno mandata al collegio: le suore non erano più gentili di mia madre, ma ci trattavano tutti allo stesso modo”.
La luce del tramonto era dorata. Sentii la voce di mia madre chiamarmi dal balconcino,il suogesto con il braccio che imponeva di rientrare per la cena. Provai un sollievo inaspettato, una finestra che si apriva su un’altra veduta. Una volta a casa mi sarei sentita meglio, la confusione e il turbamento che mi agitavano si sarebbero allentati: mi sarei seduta a tavola con i miei, mia sorella e mio fratello, il rumore dei piatti e delle posate, le nostre storie della giornata in fabbrica, il bel tempo, la paga settimanale, il pranzo da portare l’indomani a lavoro, e poi avrei guardato un po’ di tv prima di andare a letto. Come al solito.
Mentre camminavamo verso il duplex, Filomena mi pregò di non parlare con nessuno di quello che mi aveva detto, di tenermelo per me, e non ebbi nessuna difficoltà a prometterglielo.

Io, Filomena e un gruppo di amiche eravamo assidue nella nuova parrocchia del quartiere. Andavamo a messa insieme la domenica e subito dopo partecipavamo alle riunioni settimanali della Gioventù di Azione Cattolica. La nostra vita sociale era in gran parte limitata a questi due eventi,erano le nostre opportunità per vestirci bene e sfoggiare qualche nuovo capo di moda italiana che ricevevamo dai nonni, o qualcosa che avevamo comprato nei negozi di Saint Hubert. Eravamo o sembravamo abbastanza devote e impegnate nelle pratiche religiose, confessioni e comunioni regolari, esercizi spirituali durante la quaresima. I genitori delle mie amiche approvavano la frequentazione della chiesa e avevano un gran rispetto dei preti, ma non era il caso di mio padre che disapprovava chiaramente; non voleva vedermi troppo vicina ai preti, mi diceva senza esitazioni,non gli piacevano, e non gli sembrava bene per la mia reputazione che familiarizzassi con loro più dello stretto necessario. Per una volta mia madre era d’accordo con lui, ma per altre ragioni: la sua preoccupazione aveva a che fare con la paura che io mi facessi monaca. Dovevo pensare a sposarmi, mi ripeteva, come lei, come sua madre, era così la vita.
Io e le altre ragazze del gruppo conducevamo esistenze simili, fatte di lavoro in fabbrica, famiglia, chiesa e speranza e ansia. Eravamo tutte giovani donne immigrate, chi da pochi mesi chi da alcuni anni, eognuna di noi mirava allo stesso obiettivo: incontrare un ragazzo con cui fidanzarsi e sposarsi.Filomena aveva oltrepassato i venticinque anni, era una delle più grandi del gruppo; nelle conversazioni ascoltava, interveniva solo raramentee parlava con voce pacata, timida e divertita, come se, in quelle chiacchierate,vivesseindirettamente il suo sogno romantico.
Dopo l’episodio dell’autobus e le parole al parco, osservavo attentamente Filomena quando eravamo in compagnia, cercando qualcosa che rivelasse segni di ciò che mi aveva confidato e presumevo le altre ignorassero. Ma non percepivo tracce: vestiva come noi, rideva come noi, come noiaveva bisogno di un uomo, per curarsi.Le sueesigenze dovevano avere priorità sulle nostre. Mi assegnai il compito di individuare e vagliare potenziali candidati, soprattutto durante la messa, e per un po’ divenne quasi un’ossessione. La prima volta che le feci notare un ragazzo su cui avevo posato gli occhi da un pezzo, fece un breve sorriso triste: “Pensi davvero che possa essere interessato a me?”.

Rimanemmo due anni a vivere nelduplex dei Di Martino; nel frattempo avevo trovato un nuovo lavoro, migliore, che mi aveva portata fuori dalla fabbrica. Quando andammo via dal duplex dei Di Martino ero sollevata,sollevata di non dover più incontrare Diamante e scambiare con lui le brevi frasi di convenienza. Io e Filomena non prendevamo più l’autobus insieme la mattina, perché il mio nuovo ufficio era abbastanza vicino e andavo a piedi, ma continuammo a incontrarci in chiesa e alle riunioni. Almeno per un po’.Perché a poco a pocomi accorsi che Filomena si fermava meno regolarmente alle riunioni,arrivando a diradare le sue apparizioni. Io invece ero sempre più coinvolta con l’associazione e avevo fatto amicizia con due ragazze della mia età che abitavano vicino al mio nuovo appartamento. Ai corsi serali che seguivo per ottenere la certificazione all’insegnamento avevo conosciuto altri ragazzi italiani con cui m’incontravo qualche volta il sabato o la domenica. La preoccupazione per la sorte di Filomena si affievolì, la vedevo pochissimo.
Più o meno un anno dopo, un sabato pomeriggio,ero sull’autobus verso casa. Alla fermata di Saint Hubert, quando la portiera si aprì, vidi salire la signora Di Martino.Si accorse di me prima che potessi fingermi distratta da qualcosa fuori dal finestrino. Mi si sedette vicino e mi chiese di me, e dei miei. Io le dissi del nuovo appartamento, del nuovo lavoro, che i miei stavano bene. Allora lei mi raccontò di Angelo, che si era fidanzato e che si sarebbe sposato presto. Poi non disse più nulla, l’autobus proseguiva, e le villette scorrevano fuori dal mio finestrino.
Mi decisi a chiederle di Filomena. Mi disse che Filomena non abitava più a casa, aveva traslocato in un piccolo appartamento che condivideva con un’altra ragazza, una compagna di lavoro. Per il resto, aggiunse, tutto continuava come prima.



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