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PREMIO LETTERARIO CLARA SERENI / FRANCESCO MOSIELLO

PREMIO LETTERARIO CLARA SERENI / FRANCESCO MOSIELLO

'Cose che capitano': classificato al terzo posto per i racconti inediti

Mercoledi, 06/01/2021 - Il brano che segue fa parte della raccolta "Cose che capitano" con cui ho sono arrivato al terzo posto del Premio Letterario Nazionale Clara Sereni per i racconti inediti. Mi chiamo Francesco Mosiello e scrivo da sempre, per me stesso. Da qualche anno, dopo una crisi personale, ho cominciato a fare un po' più seriamente ed ho seguito la scuola di scrittura creativa di Bombacarta a Roma con Stas' Gawronsky. dove ho approfondito la mia inclinazione.
Un mio scritto è stato premiato (II classificato) al Premio Letterario Nazionale Vittoria Aganoor Pompilj - XIV ed. 2013


LA VUOI PURE TU UNA BELLA TAZZA DI CAFFÈ?
(dove si narra di Napoli, di angeli e della Grande Madre Mediterranea)
estratto
Potreste attraversare l’infinito universo anche rimbalzando giù giù da un ammasso stellare all’altro perché, perfino a quel modo, se seguirete la direzione giusta, nulla potrà impedirvi di raggiungere la nostra galassia, saltare sul sistema solare, districarvi fino alla Terra, avanzare e, con comodo, arrivare in Europa, poi in Italia, a Napoli, e finalmente a Capodimonte, nella via della Chiesa dove, proprio di fronte alla parrocchia di San Biagio, percorsa un’ampia corte, un prato ben tenuto, i fiori e tutto quanto, in un bel palazzo nobiliare, fatte le scale fino al primo piano, vi ritrovereste nella casa dove io sono nato e dove, in quella fredda giornata di dicembre se, vittime del vostro zelo, foste arrivati di mattina, peggio, sul presto e beh, dovete sapere che io non sono ancora venuto al mondo e vi tocca mettere in conto di aspettare non poco, fino a sera inoltrata purtroppo benché, se lungimiranti non vi perdeste d’animo e anzi, per passare al meglio il vostro tempo, dimostraste di essere pronti a cogliere l’occasione, potreste già entrare in quell’enorme appartamento che i miei occupano solo in parte, percorrerlo fino in fondo e ritrovarvi nel bel mezzo della sala grande dove, alzando gli occhi al cielo, scoprireste un affresco di sicuro interesse con in basso, tra i piedi santi della Madonna Immacolata, una testina d’angelo sognante, compiacente, con i riccioli d’oro, con le ali al collo, ma dai colori del volto piuttosto sbiaditi. Che dire? Per adesso vi basti tenerla d’occhio, perché, tra qualche anno, quando verrà il suo momento, quell’angelo, in combutta con lo spirito del racconto, non mancherà di far parlare di sé.
Signora venite, fate presto, fate presto. Rosina dice che ci siamo, supplicò mio padre che aveva fatto una sola corsa dalla cucina al soggiorno per andare ad avvisare mia nonna che, poverina, non immaginava fosse già il momento e se ne stava buona buona, per conto suo, a stendere il mesale delle occasioni sulla tavola da pranzo, che dobbiamo fare, mammà che dobbiamo fare?
Attilio, e che vuoi fare? Ora io esco e vado a chiamare “la vammana”, tu però ritorna di là e stattene tranquillo, non ti preoccupare perché tanto, quello, con la testa a terra non cade: questo è poco ma sicuro.
Mammà, ma è possibile? Pure in questa situazione dovete mettervi a dire …
Va bene, va bene, guarda io adesso corro, anzi, mi pre-ci-pi-to ma la predica no, eh? La predica no. La nonna uscì e papà ritornò in cucina.
Rusì? Ah eccoti, fece. Eh, disse mia madre, qua sto, e lo guardò. Siediti siediti che ho fatto tutto.
Per la verità mia madre non si era mossa di un solo millimetro: seduta stava e seduta era rimasta cioè papà, come l’aveva lasciata, così la ritrovava. Stai tranquilla, aggiunse ancora papà, che tua madre è già andata a chiamare Antonietta. Detto questo si fermò un momento e poi: Rusì, che dici, te la faccio una bella macchinetta fresca di caffè? La mamma non gli rispose né ì e né o e lui continuò, sono sicuro che con un bel caffè dopo ti sentirai anche meglio. La mamma a quel punto lo guardò in una maniera tale che papà non potette fare altro che accendersi una sigaretta. E però il caffè ci voleva! E’ certo che ci voleva, prima il caffè e poi la sigaretta, non il contrario, la sigaretta da sola non andava bene, caffè e sigaretta: normale no? Per cui papà, visto che la proposta di farne una macchinetta fresca era sfumata, visto che la situazione era di emergenza e che chissà quando se ne sarebbe parlato un’altra volta, aprì la dispensa alle spalle di mia madre e si fece un sorso di quello vecchio della mattina direttamente dal beccuccio del bricco di vetro. Lo stava rimettendo a posto quando, pensandoci meglio, con l’aggeggio ancora in mano, si spostò di lato lungo il lavello, prese una tazzina dallo scolapiatti di legno, la poggiò sul tavolo e la riempì di caffè. Quello gli sarebbe servito dopo, perché il caffè è sempre meglio tenerne un po’ a portata di mano: anche perché mica poteva portarsi il bricco appresso?
Però la tazzina non stava bene a quel posto sulla tavola, c’erano troppi imbrogli in mezzo e bisognava piazzarla in una zona più riparata e sicura, per cui la riprese, si fece un sorsetto, la spostò vicino alla radio, sulla mensola sopra al forno alle spalle di mia madre e quindi, con quel bel sapore di caffè in bocca, sicuro del fatto suo e pronto ad ogni evenienza, papà puntò gli occhi al cielo, alzò il gomito e si fece un tiro di sigaretta che non finiva più.
Che tristezza! Il tavolo della cucina era un cantiere in disarmo. C'era qualcuno che ancora ricordasse che giorno fosse quello? Nessuno che tirasse fuori i ferri e si mettesse all'opera? Su un lato cinque rossi d’uovo si contendevano il fondo di una ciotola e un sesto, mezzo schiacciato, tentava invano di unirsi agli altri. Più in là, sopra la spianatoia rotonda di legno, una montagnola di farina bianca, aggiustata a fontanella e con il buco al centro, non era che un Vesuvio spento, un cratere disarmato che non fa più paura a nessuno. Sul fondo, solo solo, il mortaio di pietra zeppo di mandorle secche, aspettava qualcuno, chiunque fosse, che si facesse avanti, svegliasse il pestello e cominciasse a battere.
Il trentuno di dicembre ha troppo da fare per trovare anche il tempo di far nascere qualcuno e, allora, chissà? Sarà per questo che nella vita mi sono sempre sentito fuori luogo? Chissà?
Senti Attilio, disse mia madre che, se pure stava passando un brutto quarto d’ora, un po’ di cognizione in testa ancora ce l’aveva, tira fuori la pizza dal forno, io non sono pronta ma almeno quella penso proprio di sì. Tesa come un tamburo, la faccia bianca come un lenzuolo, si contorceva sulla sedia e ogni tanto buttava di scatto la testa all’indietro: faceva paura.
La pizza, sì certo, la pizza. Papà si mise all’opera ma venne fuori il problema del forno marca Brown-Boveri, lo stesso che aveva preso mia zia e che s’era trovata tanto bene. L’avevamo comprato da qualche mese e, se mia madre lo sapeva usare poco, figuriamoci papà che però, armato di ogni buona volontà, cominciò a ragionarci sopra. Si rese conto che, se voleva aprirlo, prima di ogni altra cosa doveva poggiare la sigaretta da qualche parte. Papà si guardò attorno, ceneriere non ne vide e fu gioco forza che decidesse per la mensola dal momento che, scostando di un palmo più in là la tazzina di caffè poggiata sopra, uscì anche il posto per il mozzicone. Poi, però, visto che non poteva certo metterlo disteso ai bordi e rischiare le stesse macchie che aveva fatto sul piano del tavolino in soggiorno come pure quelle sul comodino affianco al letto, lo prese al contrario, lo strinse con cura da sotto tra l’indice e il pollice, portò la mano sinistra al muro e, tenendosi il più fermo possibile - grazie anche ad un buon senso dell’equilibrio che, per la verità, non gli aveva mai fatto difetto - appoggiò il mozzicone dritto in piedi come un soldatino a fare la guardia alla radio e alle notizie della sera. A questo punto poteva anche provare ad allentare la presa. Lo fece. Reggeva, reggeva e papà, guardingo, tenne per un po’ le mani sotto in modo da poterlo acchiappare se fosse caduto. Fece un passo indietro e, continuando a scrutarlo il tempo necessario ad accertarne pericolose intenzioni tardive, assodò che era tutto a posto e che poteva procedere con il forno. Papà aprì il portellone, fu investito da una ventata d’aria calda. Guardò la pizza di scarole fumante e concluse che a mani nude e senza un panno non sarebbe di sicuro riuscito a tirarla fuori.
Spegni il forno e prendi una pezza, gli disse mia madre che, non sentendo più rumori alle spalle, aveva girato la testa. Papà le rispose sì e lo fece, ma, non aveva ancora concluso le operazioni che: ecco, ecco, Madonna mia. Sentì la mamma gridare, abbassare la testa e guardarsi tra i piedi dove si stava formando un pozzetto d'acqua che colava dal sedile impagliato della seggiola.
Madonna mia, aveva detto mia madre guardando per terra, aveva rialzato la testa, si era morsicata un labbro, la mano. Tesa, strusciava i calcagni sul pavimento. Si era ridotta a sedersi così in punta che non si capiva com’è che non fosse ancora caduta per terra. Madonna mia, a sentire queste parole, papà mollò la presa e la pizza atterrò sul portellone ribaltato del forno ma, meno male, senza conseguenze. Papà abbandonò il ruoto a se stesso e cominciò a girare attorno alla mamma. La vedeva puntare i piedi e girava, guardava l’acqua che colava a terra e girava, spiava la porta d’ingresso in fondo al corridoio e girava, insomma lui girava.
In quella baraonda si dimenticò dello stelo di sigaretta sulla mensola e quello, solo solo, tra la radio e la tazzina di caffè, visto anche che papà, intanto che girava, aveva comunque avuto il tempo e lo spirito di tirar fuori il pacchetto per accendersene un’altra, aveva perso la speranza del conforto di una tiratina ogni tanto e si era abbandonato al suo destino: bruciò fino in fondo senza riserve.



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