“Penelope alla peste”, edito da Castelvecchi, riecheggia volutamente il noto “Penelope alla guerra” di Oriana Fallaci. Intervista a Veronica Passeri a cura di Alma Daddario
“Penelope alla peste”, edito da Castelvecchi, di Veronica Passeri, riecheggia volutamente il noto “Penelope alla guerra” di Oriana Fallaci. E in effetti si parla di una guerra: quella combattuta quotidianamente e in vari ambiti nel periodo della pandemia. Giornalista abituata a raccontare e documentare i fatti, l’autrice raccoglie le testimonianze di donne che non si sono arrese. Sono quattordici le voci raccolte, tra queste: una psicologa, un’anestetista, un’anziana che ricorda i tempi della guerra, una studentessa, una bimba di sei anni che non comprende perché non possa vedere i nonni. E c’è Piera, che lavora in un centro antiviolenza, e dorme con il cellulare acceso perché aspetta che una donna, chiusa in casa con il marito violento, riesca a chiamarla. “Sono fatti di paura e di coraggio – scrive nella prefazione l’inviata Rai Giovanna Botteri – perché di fronte alla minaccia, alla violenza e alla morte, le donne sono capaci di fare la differenza”. Belli e profondi i ritratti che emergono, raccontati con piglio narrativo, come fossero racconti. Abbiamo incontrato l’autrice durante la presentazione del libro a Roma, lo scorso 23 Dicembre, nell’ambito della rassegna “Isola del Cinema”:
Perché hai scelto questo titolo?
È nato cercando di tenere insieme i due focus del libro: le donne, che sono lo sguardo e la voce di tutti i quattordici racconti, e la pandemia che era e, purtroppo, è ancora “il fatto”, l’evento davanti al quale le protagoniste, ma anche tutti noi, siamo messi di fronte. All’inizio avevo salvato il manoscritto con il nome de “La quarantena delle donne”, ma poi mi sono resa conto che questo titolo era diventato ‘stretto’: le storie, infatti, non sono solo storie di quarantena, di chiusura, di vita ferma, di paura ma anche di ripartenza, di rinascita, di ricostruzione di una nuova normalità. Infine ci si è messa di mezzo la letteratura! Così le “donne” sono diventate “Penelope”, non tanto in omaggio al personaggio omerico quanto alle “Penelopi” consapevoli di sé e autonome che si inseriscono nella solida tradizione letteraria che va da Oriana Fallaci a Margareth Atwood, alla stessa Marilù Oliva. La parola “peste”, poi, anch’essa ricca di rimandi letterari, era in grado di racchiudere in sé molti più aspetti rispetto alla più ‘sanitaria’ “epidemia”. E certamente ringrazio la casa editrice, Castelvecchi, per aver accolto questa idea di titolo.
Nel libro raccogli testimonianze di donne di varie età, estrazione sociale, provenienza. Trovi che abbiamo qualcosa in comune nell’affrontare un’emergenza come questa?
Sono donne molto diverse tra di loro, volevo dare voce non ad una donna ideale ma a quelle reali. Nessuna di loro è un’eroina, ma tutte, forse è questo ciò che le accomuna, sono – da posizioni diverse - in prima linea, capaci di coraggio ma anche di fragilità, senza dover dimostrare di essere “di più”.
Si potrebbe paragonare questo periodo storico a quello della guerra?
Mah, è una cosa che mi sono chiesta e che ho chiesto ad alcune protagoniste. Però mi pare che con la guerra non ci sia tanto una somiglianza quanto una vicinanza in termini di sospensione della normalità. La pandemia ha portato uno sconquasso, che ha una faccia grave e dolorosa nella perdita di persone care e nell’aggravarsi delle disuguaglianze economiche e sociali, ma anche un suo peso specifico in aspetti meno drammatici come la rinuncia alla parte ‘leggera’ delle nostre vite. Inoltre, come racconta una delle protagoniste, Rosanna, c’è una netta differenza rispetto alla guerra: allora, dice, si era spinti a stare “gli uni vicino agli altri”, adesso viene colpita proprio la socialità.
C’è differenza tra uomini e donne nell’affrontare difficoltà e pericoli, soprattutto insidiosi come quello di una pandemia?
Penso che questo sia ancora un paese patriarcale e piuttosto maschilista. Non solo per ciò che accade alle donne ma anche per come se ne parla: la litania sul presidente della Repubblica donna, ad esempio, è insopportabile. Quindi, anche davanti all’epidemia da Covid-19, la differenza tra uomo e donna è alla base: la strada per la parità è ancora lunga e la pandemia ha aumentato tutte le disparità, compresa quella di genere. Sappiamo che su dieci posti di lavoro persi sette sono di lavoratrici e che, anche a emergenza finita, le donne faticano di più a trovare lavoro. Ma hanno messo in campo tantissimo, a livello di cura, presenza, impegno, professionalità e speranza: quando c’è da lottare le donne ci sono sempre e, come scrive Giovanna Botteri nella prefazione, sono “in grado di fare la differenza”.
Potrebbe essere utile portare questo testo nelle scuole?
Beh, questo è un mio desiderio… ma siamo sulla strada giusta! Il liceo artistico di Firenze ha iniziato un progetto su Penelope e anche altre scuole sono interessate. Credo che Penelope sia anche un libro per i più giovani, forse perfino uno strumento, tra gli altri, per rielaborare quanto ci è accaduto in questi due anni e che sta lì, sotto la superficie della quotidianità. Il fatto, poi, che dal libro siano nati due cortometraggi – “This is fine” di Gianmarco Nepa (Ifa scuola di cinema) e “Penelope a Rebibbia” realizzato dalle detenute con la guida del liceo artistico Enzo Rossi di Roma - mi fa sperare che si possa fare memoria di questo tempo anche con immagini, suoni, ispirazioni originali nate dall’opera ma capaci di andare oltre. Quando ho visto i due corti, premiati a Venezia 78, ho pensato che Penelope fosse diventata adulta!
Credi che questo periodo, che tutti auspichiamo finisca presto, abbia cose positive da insegnarci oltre a quelle evidentemente negative?
È una domanda difficile. Forse nessuno ha creduto davvero al refrain del “ne usciremo migliori”. Troppo semplice, troppo veloce. Vedo molte lacerazioni, rabbia, divisioni. Penso che si debbano tenere gli occhi aperti e, possibilmente, non rivolti a uno specchio. Prendo in prestito le parole di una delle protagoniste, suor Tiziana: “Voglio credere che questo tempo, pur accompagnato da così tanto dolore, non sia cattivo ma propizio. Che porti da qualche parte, che avvicini ciascuno alla propria vocazione”.
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