Venerdi, 21/11/2014 - “Il titolo del convegno ‘La violenza nel parto’ apparentemente ha un sapore un po’ ‘sensazionalistico’ ma in realtà è quello che io ho vissuto e fatto per 10 anni in ospedale, è come ho praticato la mia professione di ostetrica” Incontriamo Gabriella Pacini, vicepresidente di Vitadidonna e presidente di Freedom for birth Rome Action Group alla vigilia del convegno del 29 novembre 2014 (Roma, Casa Internazionale delle Donne) ed è interessante ascoltarla. “Sono ostetrica dal 1997 e quando ho iniziato ad assistere i parti, nel grande policlinico romano dove studiavo, appena una donna arrivava in travaglio le facevamo subito la depilazione e il clistere, non le permettevamo di avere nessuno accanto e durante il travaglio e il parto. Non le era permesso alzarsi e muoversi liberamente o scegliere una posizione per il parto - magari accovacciata, per aiutarsi con la forza di gravità - ma era costretta a stare sdraiata sulla schiena in una posizione senz'altro più faticosa e dolorosa per lei. Non le era concesso neppure un po’ d'acqua ed era idrata con una flebo. Non poteva andare al bagno e per i bisogni c’era la padella. Il più delle volte era necessario dilatare il collo dell'utero con le dita, una pratica molto dolorosa e anche dannosa. Al parto poi legavamo le gambe al lettino con delle cinte di cuoio e, con una potente spinta sulla pancia e un ampio taglio alla vagina, tra urla strazianti, la creatura finalmente nasceva. Se invece queste pratiche non funzionavano si andava in sala operatoria e si faceva un taglio cesareo. Comunque madre e bambina/o venivano immediatamente separati e per i genitori non era possibile vedere il piccolo/a se non agli orari decisi dall'ospedale. Le donne che facevano il taglio cesareo in particolare soffrivano molto di questa lontananza perché nessuno portava loro la creatura e quasi sempre finiva che vedevano il bambino per la prima volta dopo 3 lunghissimi giorni, semplicemente perché il nido era ‘al piano di sotto’ e da sole non ci potevano arrivare dopo l'operazione. Tutte le pratiche che ho descritto sono molto dolorose e, se applicate di routine e senza una precisa indicazione, sono anche dannose per la salute della madre e del bambino. Per fortuna alcune, come quella di legare le gambe, sono diventate molto rare anche se non sono completamente scomparse e oggi le donne possono, in moltissimi ospedali, avere una persona accanto durante il travaglio e il parto. Ma la posizione del parto o la separazione con il bambino/a o il taglio alla vagina avvengono ancora nella maggior parte degli ospedali”. Le donne, però, lo hanno consentito: tante lotte per la libertà e l’autodeterminazione anche per le questioni relative alla salute riproduttiva non hanno sollevato questa realtà. “In effetti è così. La condizione delle donne è molto cambiata negli ultimi decenni: penso alla contraccezione e alla possibilità di interrompere la gravidanza sono state vittorie per le donne di poter scegliere e decidere sul proprio corpo. Ma ancora oggi la stessa libertà non è riconosciuta nel parto. L’esperienza con Vitadidonna è eloquente: se una donna vuole abortire posso indicarle un ospedale dove può farlo secondo il suo sentire (con il metodo chirurgico o farmacologico, con anestesia locale o generale). Ci sono molte difficoltà ma posso aiutarla a scegliere . Ma se una donna mi chiede in quale ospedale può partorire scegliendo la posizione del parto e avendo la persona che nasce con se - due semplici , elementari, richieste che non richiedono nessuna particolare attrezzatura da parte dell'ospedale - purtroppo devo ammettere che non esiste ancora a Roma un solo ospedale in cui possa vedere riconosciuti questi diritti. Le spiegherò che gli ospedali non seguono le raccomandazioni dell'OMS, ma obsoleti protocolli interni che non rispondono ad indicazioni mediche e trovano origine in arcaiche pratiche di controllo e disciplinamento del corpo. Le dirò che potrà scegliere la posizione del parto se l'ostetrica e in particolare il medico ritengano legittimo questo suo diritto o se al contrario pensano che lei debba sottostare a delle prassi e consuetudini (rituali appunto) che non hanno nessuna motivazione medica ma rappresentano un puro esercizio di potere. E che potrà avere il bambino con se solo se la policy dell'ospedale lo considera opportuno”: Tutto questo è davvero paradossale: i bisogni e le esigenze della donna non contano nulla e i suoi diritti si fermano sulla soglia del reparto. “È proprio così. In 17 anni che assisto le donne al parto ho imparato che sono le donne che partoriscono e non noi che ‘le facciamo partorire’. Ho imparato che se cerco di capire quali sono i bisogni della donna durante il travaglio e il parto e cerco, quando posso, di assecondarli, il parto è più facile, meno doloroso, e più sicuro per la salute della madre e della persona che nasce. Ma ho anche imparato che malgrado nella nostra Costituzione l'art.32 riconosca alle persone il diritto di scegliere e ribadisca come non si possa obbligare nessuno a un trattamento sanitario, questo diritto, di fatto, non è riconosciuto alle donne durante il travaglio e il parto. E che, di fatto, le donne diventano ostaggio dell'ospedale e vengono ricattate con la minaccia che il parto è sempre potenzialmente pericoloso e che tutto questo viene fatto per il bene del bambino. Servirebbe un Basaglia anche per le donne nel parto: abbiamo riconosciuto alle persone con problemi mentali il diritto di parlare e decidere della loro salute e ancora non è possibile quando si parla di donne a termine di gravidanza”. Dunque con l’appuntamento del 29 novembre intendete aprire un nuovo capitolo alla voce ‘parto’. “Con questo evento, che coinvolge non tanto gli esperti del settore, ma altre figure, vorrei cercare di fare un po’ di luce sulle ragioni di questi "rituali’ chiarendo che non si può accettare che derivino dal bisogno dell'operatore sanitario (medico o ostetrica) di affermare un suo potere. È una motivazione che, da sola, non può più giustificare quanto accade. Siccome si tratta di un diritto delle donne, abbiamo pensato di localizzare l’incontro alla Casa delle Donne. Vogliamo ascoltare e raccogliere le riflessioni di bioeticisti, storiche e femministe che possano aiutarci a far luce su quelle che sono le reali motivazioni di questo controllo e abuso, che probabilmente ha radici profonde che riguardano in prima istanza il modello patriarcale da cui proveniamo e di come è percepito nella nostra cultura e società il corpo delle donne. Tra i relatori ci sarà anche un’antropologa che ci racconterà come in modo molto simile accade la stessa cosa nei parti a casa Bali, da dove è appena tornata. La cosa non mi sorprende affatto: la mistica del ‘parto naturale’ che permetterebbe una maggior espressione della soggettività della donna nelle società a bassa tecnologia non è confermata dagli studi ma al contrario sappiamo che praticamente in tutte le società il parto viene normato e controllato attraverso differenti rituali. Nella nostra società, in questo momento storico questo ruolo di disciplinamento e controllo è assunto dall 'eccesso di medicalizzazione, che però non rappresenta la causa ma solo lo strumento attraverso il quale noi priviamo le donne del loro potere generativo perche appartiene solo alle donne lo straordinario potere di trasformare un semplice materiale genetico in nuove persone. Non è tornando alla natura che cambierà qualcosa, ma perdemmo solo i vantaggi che il progresso scientifico ci ha dato. La strada è un’altra e per fare chiarezza ci vuole l'aiuto e il contributo di tutte/i”.
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