Recluse carcere di Teramo, dolore più grande distacco dai figli
Lunedi, 23/04/2018 - Il testo di Agnese Malatesta è pubblicato dal sito dell'Agenzia ANSA il 23 Aprile 2018.
Lavorare come parrucchiera in un carcere. Per Emilia, giovane donna di Roma, mettere a frutto la capacità di prendersi cura delle acconciature delle sue compagne non ha solo il valore di una prestazione professionale. Ha il senso dell'utilità e dell'opportunità di un ruolo che permette un contatto con una normalità di azioni pur nella straordinarietà del suo caso. Emilia è detenuta nel carcere di Teramo; circa 400 reclusi in totale, una trentina le donne. In realtà, nella vita 'fuori', Emilia, 33 anni, diploma di scuola alberghiera, ha lavorato come cuoca in ospedali e scuole ma ora è una parrucchiera. Per questo impegno riceve una 'paga', seppure minima, compatibilmente con le scarse risorse pubbliche destinate dallo Stato a queste attività. Ma fornisce il suo servizio anche senza paga; lo fa per vicinanza e condivisione con le sue compagne, perché il tempo libero sia anche uno scambio di relazioni. Ed Emilia non è la sola.
C'è, ad esempio, chi si occupa dell'assistenza alla persona, si prende cura di altre persone con maggiori difficoltà. In un contesto di privazione di libertà, l'impegno in un'attività, che rende qualche soldo, ma è anche sostegno spontaneo verso gli altri, è speranza di vita. Ed è proprio alla vita 'fuori' che queste donne sono concentrate. Pur con le sofferenze che questo procura, prima fra tutte la lontananza dai propri figli. Ne hanno parlato loro stesse, in un incontro che si è tenuto qualche giorno fa nei locali della Casa circondariale della cittadina abruzzese - una ventina le presenti - e dove appunto si è colta l'esistenza di un clima di comunanza fra loro.
L'occasione è stata offerta dal Centro di cultura delle donne Hannah Arendt che, insieme all'Università degli studi di Teramo, ha organizzato, con l'assenso convinto della direzione del carcere, l'incontro con le autrici di un libro ('A mano libera' che raccoglie scritti delle detenute di Rebibbia), Paola Ortensi e Tiziana Bartolini, direttrice della storica rivista NoiDonne.
L'incontro si è trasformato in un confronto ma anche in una sorta di sfogo di ansie e paure. L'angoscia più forte, un dolore di difficile controllo, è quello per i figli, lontani, che non si possono vedere e che non tutte possono sentire telefonicamente, e l'angoscia per una separazione forse senza ritorno. Per molte di loro, il reato che hanno commesso è frutto di una dipendenza affettiva, di una relazione non sana con un uomo, che sia un compagno, un marito o un padre. "Per le donne detenute c'è quasi sempre - dicono le autrici del libro - un uomo che ha determinato la loro storia". Parola d'ordine per tutte: libertà, nuova vita, riscatto.
"Voglio tornare a casa, dalla mia famiglia - dice Marisa, 50 anni di Giulianova, 5 figli - da poco ho perso mio padre e mia sorella e non sono potuta andare ai loro funerali. Mi manca tanto anche la mia mamma". Viene da Napoli Anna, 47 anni, 6 figli, uno morto in un incidente d'auto, che parla spontaneamente del suo reato: "sono finita nel giro della droga.
Ho conosciuto un uomo, ho collaborato con lui. Ora i miei figli sono in una struttura, li sento una volta la settimana. Mi sento cambiata. Lavoro come assistente alla persona e sono contenta".
Ma le relazioni non sono facili: "Fino a poco fa - continua Anna - mio figlio grande mi evitava, ora viene a trovarmi, quando ci vediamo mi accarezza, mi dice non ti abbandono. Spero di poter uscire anche per qualche ora, vorrei che mi si mettesse alla prova". Francesca, 49 anni, ha 3 figli: "mi trovo qui per mio marito. Sto tanto male. Ho avuto una brutta vita, niente rose e fiori. Gli uomini ci trattano come bestie. Ora spero negli arresti domiciliari".
Charlotte, 26 anni, è di origine nigeriana, quasi una laurea in medicina, si sente fortunata: "ho sposato un italiano che mi ha insegnato ad amarmi e che ora mi aspetta. Spero di uscire a maggio". (ANSA).
Lascia un Commento