Martedi, 26/11/2019 - Paolo Di Paolo, Lontano dagli occhi, Feltrinelli 2019
Cosa accade quando una donna rivela che la gravidanza può essere un incubo e un peso che sigilla le finestre, strozza le vie respiratorie e non permette più di andare avanti? Strali, tuoni e fulmini. Per questa ragione è interessante che a farlo sia un uomo. All’inizio la cosa può generare un seccato stupore: come si permette un maschio di entrare nei dettagli della gravidanza, del sentire femminile in un momento così intimo e delicato, come può indossare la pelle di una donna? Ebbene, è una reazione da accantonare senza esitazioni, perché si intuisce presto che forse solo un uomo può azzardarsi a raccontare ciò che una donna non può dire: non sempre aspettare un bambino è bello, non per forza si tratta di un lieto evento, non è scontato che sentirsi crescere dentro una creatura sia magico, non è legge che quando si partorisce poi si dimentica tutto, non è vero che potresti riconoscere tuo figlio tra cento, e che quando vedi il suo volto per la prima volta dimentichi tutto il resto.
Paolo Di Paolo ci racconta le vicende di tre donne – Cecilia, Valentina e Luciana – molto diverse tra loro, accomunate da un elemento: aspettano un bambino e non l’avevano previsto. Lungo le pagine, le protagoniste pensano intensamente a molte cose, tranne che al nascituro, quasi fosse un particolare senza importanza. Ed è incredibile come un uomo riesca a raccontare fedelmente la claustrofobia di una gravidanza inattesa, quel percepirsi escluse dalla vita, quel sentirsi ormai fuori gioco, intrappolate, condannate: “I dolori, doloretti, come di qualcosa che si anima dentro –minuscolo, gigantesco –il primo scalciare che aveva sentito: come un’offesa, una cattiveria, lì per lì”.
Ma c’è un altro elemento che sorprende per un autore dalla scrittura abitualmente elegante e pulita: un certo indugiare sul sesso, nei suoi aspetti più torbidi, descritto con un linguaggio a tratti greve che ti fa venire il dubbio che l’autore sia un altro. Ma poi, verso il termine del romanzo, la ragione emerge chiara e crudele: veniamo tutti da lì, dopotutto ognuno di noi è il risultato di quell’atto animale e istintivo, talvolta sbagliato, non pianificato, ed è proprio per questo che quell’atto da solo non può giustificare – o generare- l’amore per un figlio. E infatti spesso non basta: "Un albero genealogico vive di innesti per approssimazione, come dicono i botanici, oppure a gemma, a pezza, a tassello. Così funzionano le storie umane: una sola linfa, il sangue, è troppo poco”. In altre parole: ha più ragione di dirsi madre una donna che è andata a letto con un compagno passeggero, e per sbaglio rimane incinta, o una donna che cerca e accoglie e decide di amare il figlio di quell’incontro?
Ci sono molti spunti interessanti in questo nuovo lavoro di Paolo Di Paolo. A partire dalle considerazioni sui padri in attesa, perché “un uomo che sta per diventare padre non lo riconosci da niente. Nessuno gli cede il posto, nessuno gli fa largo, nessuno suppone di doverlo proteggere, o compatire”. O ancora quando considera che “Non è facile essere i genitori che i figli vorrebbero. Non è facile nemmeno il contrario”.
Il romanzo inoltre è un viaggio attraverso gli anni Ottanta, con le sue canzoni, lo scudetto della Roma, la scomparsa di Emanuela Orlandi, le agitazioni politiche. Sembra quasi di percepirne l’odore e di indossarne le emozioni, e di camminare lentamente lungo uno dei viali della città, all’ombra di pini e oleandri che in estate stordiscono fino a farti perdere orientamento e ragione.
Paolo Di Paolo si conferma raffinato cesellatore di storie, e qui ci mette di fronte a una serie di storie-immagini che sembrano affisse sulla parete del tempo come a dirci: è così che doveva andare, non poteva essere altrimenti, non è colpa dei protagonisti, “Gente fra i venti e i trenta pronta a essere sbattuta fuori dalla giovinezza”.
Eppoi, alla fine, ecco che il romanzo fa una geniale piroetta, tramutandosi in una dichiarazione d’amore per la letteratura, per la vita, che sembra quasi di sentir cantare Violeta Parra col suo “Gracias a la vida, que me ha dado tanto”. Un finale che mette ogni cosa al suo posto, che dà un senso anche a ciò che sembrava non averne, che infonde serenità e pace. E sembra di sentire il profumo di un giardino, con una magnolia e un cedro troppo alto, che un giorno verrà tagliato, immagini luminose e forti, che sono lontane solo dagli occhi, e che la scrittura – vera trionfatrice – saprà immortalare, come una di quelle vecchie fotografie dal bordo bianco e la data stampata sopra: “Scriverò per trattenerle e per farle ricominciare.” Che è poi il ruolo, meraviglioso, della letteratura.
Roberta Yasmine Catalano
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