Venerdi, 03/02/2017 - Ci risiamo. Ogni volta che si impone il protagonismo di gruppi, associazioni, reti di donne attraverso prese di posizione o occupazione politica dello spazio pubblico nelle sue varie forme, ci troviamo a fare i conti non solo con la sistematica cancellazione e sottovalutazione da parte della politica istituzionale e dei media, ma anche con forme pesanti di delegittimazione da parte di altre donne. Il percorso che sta facendo da molti mesi la rete “Non una di meno” è disseminato di inciampi di questo tipo. (vedi altro articolo di Marcodoppido in noidonne.org)
Si è riaperto ad esempio con toni spesso molto accesi il discorso su cosa è il vero separatismo, cosa significa essere una vera femminista: il risultato è un conflitto che rischia ogni momento di diventare sterile contrapposizione e si traduce nei fatti in un depotenziamento della grande forza trasformativa che possiede in sé la libertà femminile.
C’è chi parla di separatismo radicale – assunto come unico e autentico separatismo - per intendere una esclusione totale degli uomini dalle proprie pratiche e iniziative politiche.
La radicalità per me, al contrario, sta in primo luogo nello sguardo e nel gesto, nella fedeltà alla propria esperienza sessuata, riconosciuta e significata nella relazione con le altre donne. Il separatismo ha come sua finalità il far accadere quel movimento di separazione nella coscienza di ciascuna che permette la presa di distanza da quanto elaborato dagli uomini per dire di sé, delle donne, del mondo. Questo è possibile solo in una relazione politicamente risonante con le altre in cui matura un punto di vista nuovo, situato nell’esperienza del corpo/mente/sentimenti dei soggetti che noi siamo, differenti e differentemente orientati. Il separatismo, cioè lo stare tra sole donne, è radicale solo quando il femminismo che lo abita è radicale. La sua radicalità, a questo punto del processo di autonomia culturale e politica delle donne, secondo me non dipende perciò dalla assenza o presenza degli uomini da ogni nostra pratica politica. Rimane, questo sì, passaggio ineludibile, strumento fondamentale per costruire e affermare ovunque libertà e autodeterminazione femminile. Ma la libertà è nominabile e misurabile solo all’interno delle relazioni e nel mondo in cui viviamo ci sono anche gli uomini; le relazioni che abbiamo con loro - lo verifichiamo in ogni ambito della nostra quotidiana esperienza - sono il terreno più impervio per mettere alla prova la nostra libertà e perciò rappresentano un luogo molto significativo a cui è bene, come sta già avvenendo, dare spazio e parola politica.
Parlo da tempo della necessità di un separatismo dialogante, a maggior ragione oggi che incontriamo anche uomini che, a partire dal riconoscimento dei saperi e delle pratiche del femminismo, stanno costruendo una loro possibile libertà dal modello patriarcale. La loro presenza nei giorni 26 e 27 novembre - tanto criticata da una parte del femminismo - era marginale non solo perché esigua, ma soprattutto perché quegli uomini avevano accettato di essere ai margini, consapevoli cioè di trovarsi all’interno di uno spazio politico costruito dalle donne, dai loro desideri e bisogni a cui però riconoscevano valore anche per sé stessi e la propria libertà.
Solo da qui può cominciare a mio avviso un dialogo nel reciproco riconoscimento e una alleanza quanto mai necessaria perché il patriarcato è purtroppo ancora molto attivo, nonostante sia smentito clamorosamente dalla qualità della nostra presenza nella realtà.
La cultura, la politica e l’assetto sociale portano ancora segni evidenti di un dominio maschile duro a morire e troppi sono gli uomini che non riescono ad accettare la verità su di sé fino a sfregiare, violare, uccidere.
Per questo c’è bisogno di separatismo dialogante e più che mai di femminismo, anzi di femminismi. Il femminismo, infatti, si articola da sempre in varie forme segnate da differenze teoriche e politiche. In questa nostra contemporaneità si trova a fare i conti a livello globale con nuovi e subdoli poteri, nuove forme di sottrazione di soggettività, di libertà e di autodeterminazione, in un contesto di patriarcato neoliberista dove dominano il mercato, il consumo, il denaro a scapito del valore primario delle relazioni.
Sono convinta che il femminismo oggi deve essere in grado di farsi movimento policentrico e interrelato, superando definitivamente quell’impianto binario del pensiero e della conoscenza che ha costruito gerarchie improprie e deve posizionarsi saldamente nell’intreccio tra le tante differenze che ci attraversano: genere, orientamento sessuale, classe, cultura, razza, etnia, religione, età. Deve assumere nella lettura del presente la complessità, l’ambivalenza del desiderio e le contraddizioni insite nell’esperienza umana tenendo insieme un lavoro politico sul sé di ciascuna - nuove forme di autocoscienza - e quello sulla realtà che vogliamo radicalmente cambiare; deve ribadire il valore della differenza e, nello stesso tempo, riconoscere l’uguaglianza come ineliminabile categoria interpretativa della dimensione umana a garanzia di una pratica di interconnessione e solidarietà tra soggetti differenti. Insomma un femminismo delle differenze, adulto, transazionale, intersezionale, capace di sostenere nei tempi lunghi la fatica della cura delle relazioni, di gestire correttamente i conflitti anche di fronte a narcisismi fuori misura, strumentalizzazioni, desideri egemonici.
È forse una utopia senza speranza? È certamente un orizzonte possibile, come sembra testimoniare finora l’esperienza di “Non una di meno”, un orizzonte radicalmente alternativo alla deriva verso cui sembra andare il mondo, trascinando nella insignificanza tanto di quello noi donne abbiamo in questi anni detto, praticato, desiderato.
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