Dodici racconti che scavano in una maternità, che forse non siamo abituati a immaginare
Esiste qualcosa di mostruoso anche nell’amore materno?, si chiede Romana Petri, nel libro Mostruosa maternità (Giulio Perrone editore 2022).
Attraverso una serie di racconti, cerca di delineare questo oscuro percorso.
Romana Petri indaga la metà oscura dell'essere madre. Perché, alle volte, l'essere madre può essere un peso. E ridursi a qualcosa di tremendo, come racconta il mito di Medea.
I dodici racconti che scavano nella fragilità femminile o, meglio, in una maternità, che forse non siamo abituati a immaginare. Una domanda difficile, che alla fine dei racconti sembra trovare la sua risposta: sì, può esserlo. La maternità può essere qualcosa di tremendo. Una considerazione ovviamente soggettiva, perché questo libro non mancherà di impressionare, di sconvolgere e di far rabbrividire.
Dalla cronaca al Medioevo, dalla frustrazione alla violenza, Mostruosa maternità è una scatola chiusa in cui si sbatte da una parte all’altra alla ricerca di una ragione, di un perché rispetto a simili gesti. La raccolta si apre e si chiude attorno al più noto caso di cronaca di omicidio perpetrato da una donna negli ultimi anni: il delitto di Cogne.
Perché la cronaca di certi fatti è talmente terribile da abitare per decenni l’immaginazione, gli incubi, i pensieri indicibili di una comunità intera. Perché sono la letteratura, che riedita il passato liberandosi della cronaca, può farsi strumento per penetrare nell’indicibile degli accadimenti trascorsi, segnati da una violenza agghiacciante: «Il passato non è mai la vita vera, è l’illusione fragile di ciò che abbiamo sognato senza riuscire a possederlo, è solo questo che persiste nella mente», scrive l'autrice.
Nel delitto di Cogne confluiscono tutte le contraddizioni di una società che vuole la ‘donna madre felice’. Romana Petri racconta la Maternità rinnegata per gelosia dell’amore dell’unico figlio verso il padre (come nel racconto Tronco d’albero): «Perché chiunque lo direbbe, che male c’è se padre e figlio cercano di stare assieme? Lo direbbero tutti che è cosa normalissima. Ma per me no, commissario. Per me non lo fu per niente».
Ci sono, nel libro, altri tipi di maternità come quella di Nadežda del racconto Ogre verso un nuovo amore, Marco, che sembra sollevare la ragazza madre da un destino miserabile e nutre la sua speranza di essere desiderata e amata: «Aveva sperato di trovarselo sotto casa che l’aspettava. Ma quando arrivò davanti al portone sospirò delusa e salì le scale a passo lento, come fossero le infinite scale di certi infelici sogni». C’è anche la maternità disperata di Violante, protagonista di Memorie nere, che impone una fine tragica contemporaneamente a sé e al figlio neppure adolescente: alla visione della mostruosa declinazione dell’amore materno nessuno resiste, e l’io narrante dirà, descrivendo una reazione comune, «sono fuggiti tutti e chi, frastornato, rimaneva, veniva trascinato via con forza». C'è, poi, la maternità dolorosa, che solo angelici dolori possono eguagliare: «in una notte di pioggia fina fina che lì dove ormai dormivo io mi entrava nelle ossa. Vidi accendersi le luci nella casa e grande movimento di corpi femminili passare avanti e indietro come ombre. Lo capii da me che stava avvenendo il male con la stessa semplicità delle cose buone; e me ne stavo lì, sull’uscio dell’asinaia, seduto in terra, i gomiti sulle ginocchia e gli occhi rivolti un po’ verso la casa e un po’ verso la luna. Stetti all’ascolto di quel gran silenzio, e seppi da me che se vento e mare avevano deciso di tacere era per fare coraggio a quella figlia mia, che a differenza di tutti gli altri muti non sapeva emettere nemmeno le mostruose grida del dolore», come si legge nel racconto Il vino profumato.
Petri senza giudizio, analizza, comprende i fatti e, poi, con la penna applica un taglio netto: rompe lo stigma: dire “madre” non sempre equivale a dire “amore” e l’amore nonsempre vive nella madre. Perché lei, la donna che partorisce, può diventare mostruosa negli abbracci, generare non significa custodire, ma divorare per non essere divorata. La madre può diventare mantide, predatrice e preda, ingoiare se stessa e confondere il prima col dopo, dentro a un tempo che non le appartiene.
I racconti di Romana Petri sono necessari perché trascinano verso una riflessione obbligata: il mostro della violenza, della follia cieca contro natura, abita silente in ogni individuo, si sveglia all’improvviso, reagisce furente alla solitudine, si nutre di dolore e dimenticanza. Voce dopo voce, Petri mette il lettore davanti a uno specchio e lo fa con ritmi ogni volta diversi: con delicatezza e durezza, con schiettezza e misura.
Accarezza e poi affonda, fino a sigillare un tentativo di verità: il mostro è «un appesantimento lugubre del cuore». Sì, i racconti di Romana Petri ci dicono che è lì che bisogna tornare a guardare, in fondo al cuore, dove stilla la goccia di ogni sofferenza umana. Un invito che l’autrice fa, dando voce ad Anna Maria Franzoni schiacciata dalle montagne, alla Regina Octuria disperata dentro una torre, alla piccola Victoria, innocente vittima di un orrendo abuso. L’autrice, che indaga da anni l’uso delle parole, ci mette in guardia proprio dalle parole stesse, quelle che seducono nell’inganno, fiato dopo fiato, fino a disegnare un’invisibile ragnatela in cui si rischia di restare impigliati.
E riporta alla vita una vecchia parola: gelosia, nel libro di Petri, sembra essere come un ragno insidioso. Ma la maternità è anche quella davanti a una dolcezza dolorosa, quella delle madri sotto la croce. Quelle che tentano di resistere in nome della fede, chiedendo giustizia per un corpo innocente vilipeso e straziato. Per altre, vale il destino dello sguardo immoto: «Ci sono anche persone che per il dolore, quando è troppo forte, le cose se le dimenticano».
Petri costruisce, rielabora i fatti di cronaca o di figure storiche esemplari con l'idea che «bisogna mettersi nei panni degli altri. Dedicarsi un po’ per giorno al pensiero del dolore degli altri (…) prima per un breve tratto, poi allungandolo un po’, insomma per arrivare fin dove possiamo». Così, in Mostruosa maternità, l’empatia diventa la cifra della scrittura: lo stile che varia di racconto in racconto, in base al personaggio scelto, con naturalezza e semplicità dotate di una credibilità commovente; è l’origine dello sguardo; è l’oggetto stesso del racconto; è l’esorcismo contro le bocche spalancate delle crudeli, sanguinarie condanne massmediali.
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