Sabato, 16/04/2022 - Si è affermata come grande fotografa, mestiere considerato poco adatto alle donne nei primi decenni del Novecento, ed è riuscita a costruire “il mito attraente di se stessa attraverso scatti che appartengono alla storia della fotografia.”
Questa straordinaria figura femminile è ben illustrata nella mostra “Prima, donna Margaret Bourke-White”, visitabile al Museo di Roma in Tratevere fino al 30 aprile. L’esposizione è occasione preziosa per incontrare l’esperienza professionale e umana di una donna che ha fatto della libertà e dell’autonomia il timbro della sua vita.
“Solo per caso, alla fine del mio matrimonio, tornai all’università con una macchina fotografica usata tra le mani”, racconta lei stessa, spiegando che grazie a Ralph Steiner comprese “che le fotografie non dovevano imitare i quadri. Da quel momento tutto sembró animarsi, magicamente....”.
Parte da Cleveland l’avventura di Margaret Bourke-White, donna e fotografa: sono gli anni Trenta dell’America protesa nel rilancio economico dopo la grande depressione. Inizia a lavorare per ‘Fortune’ e poi per ‘Life’, una rivista “giovane e informale” che voleva catturare “qualcosa di nuovo che nessuno avrebbe potuto immaginare prima”.
I suoi scatti ai rocchetti di rayon e alle lamine pronte per la rifilatura delle acciaierie conferiscono un’estetica potente agli strumenti del progresso. Cosi come sono sorprendenti le inquadrature dall’alto: i campi coltivati, la folla o l’aereo in volo sopra i grattacieli.
Che ritragga i minatori in Sud Africa o l’india di Gandhi, lo sguardo di Margaret cattura sfumature e angolazioni che raccontano storie e umanità.
'La fila del pane dopo le alluvioni', foto scattata a Louisville (Kentuky, 1937) è emblema di un’America che esclude i neri dalla promessa del più alto standard di vita al mondo.
La reputazione di Margaret Bourke-White è tale da consentirle di essere la prima straniera autorizzata a fotografare il piano quinquennale dell’Unione sovietica di Stalin, che ritrae in esclusiva per “Life”: uno scoop eccezionale.
Nel 1942 l’esercito americano disegna per lei la prima uniforme femminile. E Margaret è al seguito della Terza armata del generale Pattern che entra nel campo di Buchenwald, “qualcosa di inconcepibile per la mente umana”. Nella sua celebre foto la donna tedesca si copre il viso per non guardare il cumulo di cadaveri: è tra i migliaia di civili obbligati a visitare il campo dì concentramento . “Per la prima volta ho ascoltato la frase che dopo di allora avrei sentito pronunciare migliaia di volte ‘non sapevamo, non sapevamo’. Invece sapevano. Vidi e fotografai pile di corpi nudi senza vita, i pezzi di pelle tatuata usati per i paralumi, gli scheletri umani nella fornace, gli scheletri viventi che di li a poco sarebbero morti per aver atteso troppo a lungo la liberazione”.
La mostra di Roma propone una panoramica approfondita del percorso di Margaret, fino agli ultimi anni, quando si presenta la “misteriosa malattia” che colpisce la parte del cervello deputata al controllo dei centri motori che coordinano i movimenti volontari. Si sottopone a cure sperimentali e decide di documentare, attraverso le fotografie, la storia di questa malattia. Con Alfred Eisenstaedt mette a punto un progetto per Life in modo che la sua esperienza “potesse essere di aiuto alle persone che devono combattere la stessa battaglia. I giorni dei segreti erano finiti - scrive -. Ora ero pronta a condividere quello che avevo imparato con il resto del mondo”.
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