E' ambientato nella sua città il romanzo della giornalista bolognese che propone figure femminili portatrici di mestizia e arrendevolezza ma anche di una incontenibile rabbia contro un sistema famigliare e sociale che diventa rivendicazione
Lo sguardo buio (AIEP) è il primo romanzo di Natascia Ronchetti, giornalista bolognese, collaboratrice di testate nazionali: dal Sole 24 Ore a l'Espresso passando per Linkiesta. Dopo due testi di carattere economico e sociale, Finanza etica. Una rivoluzione silenziosa. A colloquio con Grillo (2013) e Il Rituale del Femicidio (2016) - che raccoglie parole di genitori, figli, fratelli di donne uccise dai propri compagni - debutta col suo primo romanzo, in cui mette il 'mestiere', con una ricerca puntuali di fonti storiche e una ricostruzione puntuale del Paese della seconda metà del secolo scorso.
Lo sguardo buio è quello è di Marina, Anna, Alide, Anita. E’ quello che nel ‘900 consumato dalla seconda guerra mondiale, dalle leggi razziali, dalle tessere annonarie e da una società patriarcale, avevano le donne.
Lo sguardo della rassegnazione, del senso di ineluttabilità, dell’attesa non tanto della gioia quanto del compimento del dovere di diventare madri e mogli di mariti padroni indisponibili a dimostrare affetto, invischiati in modelli di virilità rivelata tra botte, silenzi, tradimenti. In cui l’educazione si trasferiva per dogmi, senza troppe parole.
Uomini progressisti eppure incapaci di affrancarsi da un’idea di autorità che aveva a che fare con la forza e di aprirsi a un mondo, quello post conflitto e della ricostruzione, in cui i valori della laicità, dell’emancipazione, dell’auto determinazione femminile, del desiderio collettivo di superare l’analfabetismo attraverso l’istruzione si facevano strada. Temi di grande attualità, nelle celebrazioni dell'8 marzo, in un Paese, il nostro, in cui i diritti acquisiti vengono dati per scontati e le nuove generazioni paiono a loro agio in un società che pare retrocedere verso forme di patriarcato e dipendenza economica e affettiva verso l'uomo.
In questo contesto, nella borghese Bologna che viveva e animava il centro storico, è ambientato Lo sguardo buio (AIEP), di Natascia Ronchetti, le cui protagoniste sono donne portatrici chi di mestizia e arrendevolezza, chi di una tristezza che oggi chiameremmo depressione, chi di una incontenibile rabbia contro un sistema famigliare e sociale che diventa rivendicazione, chi della capacità di osservare e di restare ai margini con la convinzione di non avere altre opportunità se non l’esistere.
Donne che non sentono come proprio il ruolo che ha assegnato loro la vita, attraversate dal senso di colpa per la propria incapacità di incidere, di cambiare al ritmo della rinascita di un Paese e di una città che offre innumerevoli opportunità per residenti, studenti, immigrati, lavoratrici.
E’ la Bologna di Giuseppe Dozza, sindaco dal 1945 al 1966, la città che nel 1951 accolse il 29esimo congresso del Psi, con Pietro Nenni e Sandro Pertini; in cui Vittorio De Sica girò nel 1952 Umberto D.; in cui Gino Bartoli vinse nel 1953 il Giro d’Emilia. Quella nelle cui case arriva la televisione, la Vespa, si affaccia il consumismo salutato con soddisfazione tra osterie e cinema.
Una Bologna vitale e luminosa, testimonianza di un Paese che ha voglia di sperimentare le arti, aperta al futuro in ogni ambito, dove arriva l’influenza di Basaglia, che voleva chiudere i manicomi perché ‘i matti non esistono’ e ‘chi soffre va curato in strutture che non tolgono la dignità’.
Una Bologna più che mai universale.
Ogni personaggio del romanzo incarna un senso di libertà, agognato o raggiunto, comunque sperimentato. Un libro frutto di una ricostruzione storica puntuale della città delle Due Torri e dell'Italia, che racconta, spiega l’autrice, “decenni in cui si condensa la parabola dell’umano. La tragedia della guerra e dell’oppressione, con l’enorme portata di dolore e di lutti. La rinascita, sempre attesa, con il suo corredo di speranza in una nuova era, libera e persino felice. Ad aprire e chiudere il romanzo un parto, a significare, in qualche modo, l'avvio di una nuova era. Forse più felice".
In copertina Ritratto di Jeanne Hébuterne, 1918 di Amedeo Modigliani (particolare)
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