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Deputato e Deputata. Linguisticamente - di Manuela Manera*

Deputato e Deputata. Linguisticamente - di Manuela Manera*

Una risposta al trafiletto “Buongiorno Torino” di Mattia Feltri in cui compare un imbarazzante commento dell’intervento in Parlamento dell’onorevole Augusta Montaruli (FdI) che vuole essere appellata al maschile, “deputato”

Giovedi, 27/06/2019 - Succede che, sul quotidiano «La Stampa», nel trafiletto “Buongiorno Torino” di Mattia Feltri è uscito un imbarazzante pezzo a commento dell’intervento in Parlamento dell’onorevole Augusta Montaruli (FdI): Montaruli, invitata a parlare dal presidente Fico con il vocativo “deputata”, spende una manciata di minuti per argomentare che vuole essere appellata al maschile, “deputato”.

Lo fa, peraltro, basandosi su un’osservazione interessante: siccome è eletta alla Camera dei Deputati (e non “delle Deputate e dei Deputati”) allora lei vuol essere nominata “deputato”. Parrebbe, il suo, quasi un atto provocatorio a sostegno di una battaglia per rendere più inclusivo il nome di una delle due Camere parlamentari. Così non è, ahimè; si tratta semplicemente di ignoranza linguistica. Inutile qui riprendere le solite e oramai note regole della lingua italiana sull’uso dei femminili nelle professioni e nelle cariche (indicazioni, peraltro, reperibili online gratuitamente: sia sul sito dell’Accademia della Crusca; sia in agili e veloci manuali, come per esempio quello scritto dalla professoressa Cecilia Robustelli per GiULiA).

Quello che mi preme non è tanto sottolineare il comportamento della deputata Montaruli, che ignora – e con arroganza priva di capacità argomentativa – le regole di base della lingua italiana con azzardate scelte lessicali (le stesse che poi generano titoli come “il ministro incinta” o “diventa mamma il ministro della Salute”). Quello che mi preme è invece mettere in evidenza come, nel pezzo de «La Stampa» citato sopra, un giornalista in poche righe dichiari di non voler intervenire nel dibattito del “come si dice” (che, affermo io, è un dibattito finto perché la forma corretta è una), commentando che tanto è inutile prendere posizione perché in un mondo in cui neppure le donne sanno quello che vogliono – si sa come sono, no? – non esiste una forma giusta e comunque i poveri uomini sono destinati a sbagliare. Dunque, tanto vale tirarsene fuori.

Ma, dico io, un giornalista dovrebbe, se non essere al corrente delle regole grammaticali basilari, quantomeno chiederne a persone informate (qui: linguiste e linguisti, che certo non mancano in Italia) per poterne scrivere in modo assennato; cosa fa invece Feltri? Nel suo trafiletto, finge di sottrarsi a un posizionamento, ma di fatto si schiera, eccome. E il suo atteggiamento ha pure un nome preciso: backlash (contraccolpo). Contro cosa? Contro un sempre più diffuso uso corretto della lingua; un uso che restituisce – a livello linguistico – l’immagine della realtà in cui le donne ci sono e lavorano e ricoprono cariche e ruoli importanti: cancellarle (e cancellarsi) dal linguaggio significa forzare il sistema grammaticale, e compiere una scelta politica precisa. Peccato che Feltri faccia finta di non accorgersene, nascondendosi dietro la battutina della declinazione non dei nomi ma del “politicamente corretto”. Caro Feltri, non c’è un “politicamente corretto” di sinistra e un “politicamente corretto” di destra; esiste, piuttosto, un solo “linguisticamente corretto”: interrogarsi sul perché non viene rispettato avrebbe più senso che scrivere un compiaciuto articoletto reazionario.

Manuela Manera, Linguista, “Se Non Ora Quando?” Torino *

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