Un pomeriggio d'estate Roberto Alajmo incontra la madre in una strada di Mondello. Non può immaginarlo, ma quello è un addio. "Cos'abbia fatto lei, nei tre mesi successivi, ancora oggi non lo so. È oggetto della presente indagine".
Domenica, 12/08/2018 - L’estate del ’78, di Roberto Alajmo. Sellerio Editore
Quand’è che prendiamo commiato da una persona? “Certe volte non lo sai, ed è l’ultima volta. Altre pensi che sia l’ultima, e non è l’ultima per niente. Come in certi addii alla stazione, quando il treno sembra sul punto di partire e non parte mai. Si tratta allora di tenere alta la commozione a tempo indeterminato, e dopo un po’ vorresti che il maledetto treno di sbrigasse, fermo restando il dispiacere del distacco dalla persona amata.” Nella sua nuova opera Roberto Alajmo sembra restare su predellino del treno per tutto il tempo. Il tempo di Elena e Vittorio, due genitori da chiamare per nome perché forse a tenerli distanti fa meno male, si può quasi fingere che siano meri personaggi; o forse una certa distanza permette di vederli più a fuoco, di comprendere, di liberarli: “devo rivolgermi a loro con tecnico distacco, senza scorciatoie confidenziali”.
Ma davvero, quand’è che abbiamo salutato per l’ultima volta una persona che ci ha lasciato? Chi ricorda con esattezza il momento? Oltre alle persone, Alajmo stila un Repertorio delle Gioie Irrecuperabili, gesti e abitudini che ognuno di noi ha dato per scontati e poi a un tratto, puf, cessano di accadere, senza che ce ne accorgiamo, senza quindi poterle salutare, come ad esempio leggere senza occhiali, abbracciare un genitore, o prendere in braccio un figlio. Quest’ultimo è effettivamente un gesto cui non ci è dato dire addio: lo facciamo in maniera spontanea, quasi meccanica, per anni: quando si addormentano in macchina, o sul divano, che accidenti quanto pesano da portare a letto, e poi un giorno ti rendi conto che non li hai presi più in braccio da un pezzo. È una considerazione estremamente coinvolgente, ognuno di noi potrebbe stilare un proprio elenco di Gioie Irrecuperabili.
Con elegante ironia e toccante delicatezza, Alajmo ci apre l’album fotografico della sua famiglia, suo figlio, i suoi genitori, anche se tutto ruota intorno a lei, tutto sembra nascere da lei: Elena, la protagonista che sembra dare forma a ogni cosa. Una madre singolare, lontana dallo stereotipo di madre e moglie, che si sposa giovane, ha due figli, è maestra e pittrice, ma poi cresce e crescendo cambia, come capita spesso, come capita a molti. E qualcosa, in questa crescita, s’inceppa. Inoltre, Elena è torturata dai mal di testa, che cura con un medicinale che diversi anni dopo verrà ritirato dal mercato per la dipendenza che crea: un farmaco che lentamente la rosicchia dentro, la conduce spesso in clinica dove conosce l’elettroshock (“l'equivalente del calcio alla lavastoviglie che ha smesso di funzionare: può andar bene, oppure continua a non funzionare, oppure si sfascia del tutto”). La donna inizia ad assentarsi mentalmente fino a diventare “quella un po’ strana”, quella stretta nella sua vita, nella sua quotidianità. Una “stranezza” che la porterà alla separazione, in tempi in cui separarsi è scandaloso, all’allontanamento per scelta dalla casa e dai figli, per ritrovare una sua dimensione, un suo posto, un suo equilibrio.
Cosa c’è di più drammatico di una donna che non trova il suo posto in questo mondo? Esserle figlio. Vivere questa madre non già come punto di riferimento, ma come un essere fragile da maneggiare con cura, possibilmente da tenere a una certa distanza di sicurezza, perché il dolore potrebbe essere contagioso. E quando questa madre non ce la fa e sceglie di abbandonare questa vita, non c’è spazio per il melodramma, la distanza si fa voragine, salvo poi accorgersi di esserci caduti dentro. E allora inizia l’indagine, e il quando è cominciato, e quali potevano essere stati i segni premonitori e quanta parte avrà avuto il maledetto farmaco. Tutte domande che sintetizzano un solo terrore, inespresso, strozzato fino all’inverosimile: forse non mi ha amato abbastanza, non sono stato abbastanza importante da farle decidere di rimanere.
La tossicodipendenza da farmaci è una bestia che uccide anche oggi, ma se ne parla poco. Codeina, oppiacei e barbiturici sono il naturale approdo per chi soffre di dolori cronici. Sono patologie sottilmente intrecciate alle depressione, non tangibili, e se non le si vede non esistono. È mal di testa. È una “malattia socialmente impresentabile”. Prendi il farmaco e aspetti che passi. “Negli anni Settanta le case italiane si riempiono di madri di famiglia rincoglionite e tossicodipendenti, ma nessuno lo sa”. Elena, nonostante la solarità che la contraddistingue, non riesce a uscirne e forse a un certo momento non vuole nemmeno più. I farmaci piano piano la riducono a un fantasma e un giorno la ritrovano riversa su un pavimento, in modo troppo scomposto per la dipartita elegante cui aveva pensato.
È bella questa donna, le fotografie ne restituiscono l’immagine di una persona sorridente e vitale, ma è facile immaginarla stretta in un periodo storico così delicato, una donna “ca vulissi afferrare ‘u munnu/e ‘u munnu ci scappa ri manu”. La vediamo aspettare il figlio su un marciapiede, in piena estate di maturità. Lui la avvista, è a disagio come tutti gli adolescenti, le dice qualche frase di circostanza per tornare dagli amici che lo aspettano per il gelato. Non sa che quello è un addio. Elena sceglie con orgoglio il momento in cui andarsene. Lascia una lettera in cui distribuisce le sue cose ai figli. Forse prima chiama il Telefono Amico, estremo grido di solitudine. E se ne va.
“Il dolore è scritto nel destino di ogni famiglia. E questo lo sapevamo già. Non sapevamo però fino a che punto”. Per questo Alajmo, dopo numerose opere, decide di scrivere quella più intima, consapevole che “quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è perduta”. È il prezzo da pagare per trovare una risposta, per capire l’incomprensibile. Per quarant’anni lo ha considerato un dolore da tenere d‘occhio, perché certi dolori “si avvertono toccando la parte indolenzita, magari con l’unico scopo di vedere se fa ancora male. E: sì. L’unica è non pensarci, pensare ad altro. Allora basta non toccarlo, no? Ma magari adesso che è passato un po’ di tempo non fa più male. Proviamo. Fa ancora male.” E così, quando compie l’età che aveva sua madre, ottiene l’accesso agli atti: “mi serve qualche elemento che mi consenta un’archiviazione personale, che faccia eco a quella giudiziaria e aiuti a pacificarmi”. E inizia il penoso lavoro di scavare più a fondo che si può per avere l’impossibile conferma: è stato suicidio? Voleva solo lanciare un allarme? Davvero voleva morire? Nessun documento potrà stabilirlo, ma Alajmo rivendica la volontà della madre come decisione consapevole e meditata, come atto di fierezza da rispettare, e infatti ne riporta lo scritto: “Voglio, invece, che tutti sappiano CHE HO SCELTO IO IL MOMENTO: è l’ultima vanità, di pavesiana memoria; Roberto mi capirà”.
Difficile, terribile scorgere tra queste parole i segni di un amore, che pure c’è, non fosse altro che per quel coinvolgimento, in quel lugubre gesto di complicità. Molte cose sono destinate a non essere comprese, è così, nessuno ce le spiegherà, come nessuno può spiegare perché le estati sono quasi sempre un punto nodale nelle vicende drammatiche.
Poi i giorni vanno avanti, si diventa genitori a nostra volta, e quello che sembrava un sicuro destino di morte prematura si trasforma improvvisamente in anelito di vita, agognata, stretta, corteggiata. Perché, per quanto ci si sforzi di opporci alla corrente, per quanto cerchiamo di fare i bambini incaponiti che decidono che non dormiranno più per ripicca, “prima o poi ci si addormenta sempre”.
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