Benedetta Tobagi con 'Le donne della Resistenza' fa parlare la lotta di Liberazione taciuta delle donne: uccise, torturate. violentate.
Benedetta Tobagi ha scritto La Resistenza delle donne e Simonetta Fiori ne ha fatto una gran bella recensione su una Repubblica dello scorso anno.
Sorridono sempre le ragazze che fanno la guerra alla guerra. Sorride anche Carla Capponi con l’aria snob enfatizzata dalle sopracciglia arcuate: sa di essere diventata una leggenda per come trasporta le bombe dentro la borsetta. “Se non ci vediamo più, ci vediamo in Paradiso”, è il saluto di una certa Maria al suo compagno, mentre “imparare a fare la faccia da scema” è una raccomandazione militare. Un libro che è un album.
E’ la storia, completamente al femminile, per cui donne senza intendimenti politici particolari, ma antifasciste militanti, sentirono affluire la stessa adrenalina degli uomini – che “dovevano” sfuggire al reclutamento e alla scelta tra nazifascismo e “la montagna” – e, per amore di libertà si diedero a “fare qualcosa” per uscire e far uscire dalla cappa di piombo del regime criminale: volontariamente. Compirono atti di valore, furono arrestate, torturate e uccise, vissero eroicamente “combattenti”, come dicevano gli uomini, fino alla Liberazione, quando finì la seconda guerra mondiale, sbocco finale del fascismo.
Le ho conosciute anch’io: sarebbero stati sufficienti pochi anni di più e probabilmente sarei stata una di loro, se fossi riuscita a nasconderlo a mia mamma. Ma le ho conosciute “dopo”. Non erano chiamate partigiane, solo staffette; e prive di somiglianza con il comportamento dei maschi “reduci”: in tempi recenti, ormai molto anziani, portano nelle scuole testimonianze di riflessione, ma in passato prevaleva l’epica. Raccontavano ai ragazzini com’era stata la battaglia di Porta Lame, dove adesso c’è un monumento assolutamente realistico, e descrivevano le posizioni, dove erano i nazifascisti e come loro avessero risposto al fuoco, sfuggendo all’accerchiamento dopo aver colpito molti nemici. Le donne non si sono mai gloriate delle armi portate senza imbarazzo, anche se i loro compiti erano ancor più arditi, ma non militari: le armi le avevano soprattutto portate smontate sotto le verdure delle sporte che varcavano gli sbarramenti stradali per consegnarle in montagna ai partigiani. A liberazione avvenuta, a Milano il CLN non le volle armate alla sfilata del 25 aprile: non era decoroso. Le donne, tuttavia, senza neppure pretendere “questa” parità, rimasero fedeli a se stese: sì, avevano combattuto, ma adesso la guerra scompariva dalla vita quotidiana: era il significato profondo della liberazione. Si diedero da fare per gli onori alle compagne uccise, spesso dopo violenze atroci, anche se il medagliere partigiano ha meno nomi femminili del numero di azioni politiche “minori” gestite per nascondere i partigiani, tenere i contatti con i comandi, l’attenzione alle condizioni di clandestinità. Gli uomini chiesero di essere riconosciuti come soldati e ottennero i gradi. Anche le donne – Tobagi cita Tina Anselmi: Noi odiavamo la morte ma eravamo pronte a impugnare le armi per avere la vita - ma non furono avvertite che potevano avanzare la richiesta. Se non è bello non aver ritenuto importante valorizzare il contributo femminile, in realtà ci sono le prove che alle donne non interessavano i riconoscimenti: siccome al titolo era legato un assegno, alcune accettarono la nomina, ma respinsero il denaro: sì, avevano combattuto, sperimentata la guerra, sfiorata la morte, ma era stato gratis. Con la pace ricominciava la vita. Mai più guerra lo dicevano anche i maschi, ma non ci fu coerenza: come donne siamo ancora escluse dai tavoli dove si decidono le sorti dei conflitti e le strategie politiche.
Il femminismo non aveva pregiudizi moralisti, ma nel primo dopoguerra non si discuteva pubblicamente sulla qualità delle relazioni uomo/donna, maschi/femmine nella Resistenza. Tobagi ha raccolto le testimonianze successive: Bianco Guidetti Serra ruppe il riserbo e non ebbe scrupoli a riconoscere che “Sì, si faceva l’amore, molto!”, ma la più riservata Marisa Ombra lamenta: “A me non è capitato di innamorarmi, è capitato invece che un austero e famoso capo mi chiedesse un rapporto, motivato con l’urgenza sessuale. Ne fui scandalizzata. Ma qualcuno più esperto della vita mi dissuase dalla denuncia”. Il sessismo implicito nel patriarcato diventava stalking per usare il corpo delle compagne per esperienze non consensuali e motivate in modo “molesto”.
Ma il peggio fu il silenziamento sulle torture subite dalle donne: “Il silenzio più atroce riguardò le donne stuprate dai tedeschi, ridotte all’afasia da una società postbellica ancora sessuofobica e pruriginosa”. Soprattutto i processi rivelavano il giudizio “in fondo le ragazze violate se la sono cercata o non si sono difese abbastanza. Era difficile trovare le parole per raccontare, anche con il proprio compagno. Io ho fatto la mia guerra, tu la tua. Non ne voglio parlare mai più, così il marito raggelò le confidenze di A., costretta a tacere il suo dolore. Molte di loro erano state sottoposte a torture, scariche elettriche sui genitali, lamette sui capezzoli, bossoli sparati a un centimetro dalla testa. Mi raccomando, fate vedere che sappiamo morire bene, dice Cleonice alle sue compagne a un passo dall’esecuzione”.
Tobagi chiude sottolineando il velo di tristezza di quando Liliana Segre – un’altra, diversa resistente – presiedeva il Senato il giorno del passaggio delle consegne alla nuova presidenza e dovette cedere l’alto scranno a Ignazio Benito La Russa. Fortunatamente la Repubblica l’aveva voluta, per volontà di Sergio Mattarella, senatrice a vita, simbolo della volontà comune di prevenire rischi per la democrazia. Oggi capo del governo e capo dell’opposizione sono due donne. Ma non sembra rimosso il pericolo che il femminile si adegui al modello unico maschile. E nessuno sta chiedendo un’alleanza con chi detiene una cultura politica diversa.
Benedetta Tobagi, Le donne della Resistenza, Einaudi, 2022
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