Sul libro "L'erba corre quando vuole", testo tratto da un'intervista di Giulia Ficicchia
Durante la mia infanzia, il verbo “imparare” era usato di frequente: per esempio mia nonna decise di tornare tra i banchi per rimediare alle lacune causate dalla guerra. In una delle ante del suo armadio sapevo immediatamente cosa cercare: teneva i suoi appunti tutti assieme in un piccolo raccoglitore ad anelli, e, tra i fogli, io puntavo ad una materia in particolare, la biologia. Aveva trasformato delle semplici pagine a quadretti in una sorta di erbario, dove con un po’ di nastro adesivo aveva attaccato foglie, fiori e radici. Quando arrivava la primavera, ci trasferivamo sul suo terrazzo e mi insegnava a curare le piante in vaso che avevano trasformato uno spazio cittadino in una giungla variegata. Sarà stato per quelle giornate che, quando lei mi lasciò, aprii un cassetto di quelli dove si mettono i sogni e ci misi dentro un pezzo di terra. Poi succede che la vita ti distrae e ti porta a cercare o mettere cose in altri cassetti, ma ogni volta che incappo nella storia di qualcuno che invece quel pezzo di terra l’ha trovato e l’ha trasformato in un luogo da chiamare casa, si smuove qualcosa, dentro, che mi riporta a quel sogno.
Laura Bianchi è la protagonista di una storia di quel genere lì: prima giornalista di moda a Milano, poi giardiniera per passione a Zoagli, sulla Riviera Ligure di Levante, si racconta nel suo primo libro, edito da Libreria Editrice Fiorentina, "L’erba corre quando vuole": quaderno di campagna di una donna di città.
Che finisse a scrivere un libro, per giunta che parla di un giardino, di una grotta che diventa casa, di cibo, di un amore grande che a volte ha anche i peli e miagola o abbaia, lei che ha sempre vissuto di immagini, abiti e sfilate, mai se lo sarebbe aspettato. Poi, complice un po’ la pandemia, un po’ una provocazione del compagno francese, Marc, sono nate poco più di 200 bellissime pagine che descrivono le strane strade che certe volte la vita prende e ti fa prendere; di cambiamenti che ti portano verso la felicità; della natura che si dimostra la più grande maestra che tu abbia mai avuto; di ritorni tra i banchi di scuola per poter trarre il meglio da quelle lezioni; di piante che si trasformano in cibo grazie all’amore e alla passione, o in nuove amiche con cui dialogare; del tempo che scorre con un ritmo diverso; di te che non sei più la stessa ma sei a casa per la prima volta.
Sarà colpa di quel sogno che fa un gran fracasso nel suo cassetto, che ho delle domande. Ma - forse per la prima volta - cerco anche consigli.
Raccontami del vostro primo incontro, intendo quello tra te e quel pezzo di paesaggio che ora chiami casa: come nasce la vostra storia?
Ho sempre amato la montagna e ho sempre sognato di avere una casa sul lago di Como, essendo comasca di origini. Per anni sono stata alla ricerca di un posto da quelle parti. Ma la realtà è che ero parecchio dipendente dal mio lavoro per cercare veramente. A ciò si è aggiunto il mio incontro con Marc, al quale la montagna non è mai piaciuta.
Poi ci si è messa la vita, con un grave incidente in bici. Non potendo lavorare, guidare o altro, per sfogarmi prendevo il treno per la Liguria e arrivavo dalle parti di Zoagli, dove avevo ricordi di amiche e momenti passati con loro.
Dopo diverse camminate, ho cominciato a pensare che quello poteva essere il posto giusto, perché c’erano sia il mare che la montagna, e quando ci ho portato Marc se ne è innamorato anche lui. Nel frattempo io davo un’occhiata a cartelli di posti in vendita e, telefonata dopo telefonata, ho trovato “lei”, la grotta, ed è stato amore a prima vista.
«Magari, col senno di poi, semplicemente volevano [i fili d’erba, ndr] impedirmi il passaggio, volevano che restassi “fuori”, e che, soprattutto, non vedessi il mare. Perché loro stavano bene lì anche prima che io decidessi di restare». Racconti così i primi momenti nel giardino e si ha la sensazione che tra voi stia iniziando una relazione sentimentale tra opposti. Anche se quella vita la volevi fortemente, ti sei comunque sentita un’intrusa all’inizio?
Assolutamente sì! Ma qui sono sempre stata accolta sia dalle persone che dalla terra. Questo posto mi ha dato subito quell’energia che mi ha fatto sentire a casa, io che a casa non mi ci sono sentita mai, tra viaggi di lavoro e amori all’estero.
«Ora scrivo, anche. Di piante e fiori. E non ho vergogna a non saperlo fare, non ho paura di sbagliare». Come è avvenuto questo passaggio?
Con la leggerezza di un bambino, perchè qui mi sento veramente rinata. Nel mio lavoro precedente avevo 30 anni di esperienza, avevo un ruolo definito e coordinavo molte persone, perciò sbagliare e non avere la risposta pronta era da scartare. Scrivere per me era invece un’attività completamente nuova. Poi ho capito che avevo il mezzo giusto — La Repubblica — per poter raccontare agli altri di piante e giardini, perché allora non provare? Ora che mi capita di scrivere di meno ne sento la mancanza.
Ad un certo punto ti scontri con il fatto che la campagna non è bucolica come pensavi. È stato un sogno che si infrange o una lezione di umiltà?
La redattrice di moda che è in me era convinta che sarebbe stata una passeggiata, poi invece ho dovuto capire che si devono saper far dei compromessi. Per esempio quando ho dovuto seppellire un uccellino morto: arrivi da Milano il venerdì sera nel tuo giardino fiorito e non capisci, perché ti aspetti che gli uccellini non muoiano, piuttosto cantino. Perciò devi venire a patti con la morte, che fa parte della vita e che è dura da accettare. In campagna si muore in un altro modo, le persone si stringono vicine, si danno supporto, mentre in città c’è il culto della giovinezza, la morte è un tabù.
A proposito di città, in molti passaggi del libro sono evidenti i riferimenti che fai alla al tuo vecchio lavoro. Ci sono momenti in cui quella vita ti manca?
No, in assoluto. Me lo chiedono in tanti, e io ho molto pudore a dirlo perché sembra che qui abbia una vita perfetta, cosa che ovviamente non è. A Milano ci torno per lavoro, sono sempre connessa in qualche modo con la città. Ma la vita cittadina non mi manca, perché ho trovato il mio posto qui.
Tra il giardino e altre attività manuali scrivi spesso di perderti, ma subito ritorni sulla terra, ricordandoti che il tempo passa per tutti, anche per te. Quanto ti fa paura la felicità?
Non mi fa paura, mi fa paurissima. Ho molto pudore a parlare della mia storia, perché per il momento è una storia felice. Se la mia vita dovesse finire qua, ne sarebbe valsa la pena anche solo per il tempo passato qui. Quello che vorrei trasmettere, con questo libro, è che se si sogna forte e ci si crede veramente, si può arrivare a essere felici.
Testo tratto da un’Intervista di Giulia Ficicchia
Foto: Laura Bianchi
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