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La vecchiaia, un nuovo territorio

La vecchiaia, un nuovo territorio

Alla soglia dei 70 anni, riflessioni in ‘fogli sparsi’ nell'ultimo libro di Marina Piazza ‘L’età in più’ (Ed Ghena)

Giovedi, 15/03/2012 - Parlare della complessità e del fascino della vecchiaia escludendo vecchi e nuovi stereotipi oscillanti tra un improbabile giovanilismo e un’ostentata saggezza. Con una “narrazione in fogli sparsi” Marina Piazza ci regala le riflessioni sui settanta anni di una donna che li attraversa nell’affacciarsi del Terzo Millennio. È ‘L’età in più’ (Ghena editore, pagg 173, euro 13,00) quella che l’autrice guarda, oggi, e che così definisce, battezzandola nel titolo del suo ultimo libro. “Nel mio avvicinarmi alla vecchia in un diario cumulavo riflessioni su come si presenta questa fase della vita a noi, ‘ragazze di cinquant’anni’, percepito come qualcosa di minaccioso e inconcepibile eppure vicino. Volevo contrappormi alla rimozione della parola vecchiaia, contraddizione costante in un paese che, insieme al Giappone, è il più vecchio del mondo e in cui gli anziani sono o vigorosi e bellissimi viaggiatori o non autosufficienti e flagello della società. Volevo rivisitare l’unicità dell’esperienza della vecchiaia, rispetto ai grandi numeri, privilegiare le contraddizioni, l’inquietudine, l’ambivalenza che c’è anche in questa età”. Ma nel libro c’è molto altro, le espressioni di amore per il tuo nipotino e il ricorso assai frequente ai versi di Szymborska… “Ho molto amato Szymborska, il suo stile mi ha stregato e per tanto tempo l’ho vissuta, e lo è anche stata in realtà, come se fosse una mia personale scoperta. Lei diceva una cosa che sentivo vicina ‘più si procede nella vita più crescono le domande e si offuscano le risposte’. Ecco, il mio è un libro sull’incertezza. Alla soglia dei miei 70 anni mi rendo conto che non è vero che puoi fissarti in una rotonda saggezza, in realtà vivo in una ostinata incompiutezza; è come se l’inquietudine che mi ha accompagnato in tutta la vita tornasse, a volte perfino più forte. Quindi il libro era anche un modo di entrare dentro la soggettività della vecchia e non di vederla dall’esterno”. Però nel libro non vuoi tratteggiare un bilancio… “È stato più un antidoto. Avevo cominciato a ripensare alle strade che non avevo percorso o alle scelte fatte o non fatte, stava crescendo una sensazione negativa che ho affrontato scegliendo di trasformare i ‘fogli sparsi’ in un libro che, infatti, è un libro della notte. Trasformalo in un libro del giorno è stato difficile perché era come svelarmi e ciò ha generato inquietudine”. Nelle pagine si susseguono e si intrecciano continuamente il piano privato e quello pubblico, e questo crea un particolare fascino alla narrazione. “In effetti non è stato facile tenere ferma la barra evitando di eccedere tra eccesso di pudore o di narcisismo, dovevo anche essere pronta a sostenere la difficoltà di sostenere la portata di questo svelamento”. Cosa ti ha fatto decidere? “Attraverso la mia vicenda personale volevo che emergessero anche i tratti comuni di una generazione. Sta lì il vero intreccio per noi, nate negli anni ’40: nella nostra vita adulta con il femminismo avevamo tenuto dei fili connettivi molto forti, non eravamo mai sole ed era molto forte la percezione di essere in un movimento. Invece nella vecchiaia è come se ognuna faccia il proprio percorso. Quindi ho scritto anche per ritessere dei fili e per rinarrarci la nostra storia, quindi anche la mia”. A proposito di privato nel libro c’è, forte e forse inaspettata, la tua esperienza di nonna... oppure di nonnità? “La nonnità è di più dell’essere nonna, è un ritorno a quello che ci siamo sottratte e un gustare un regalo tardivo che ci fa la vita. Noi abbiamo molto riflettuto sulle impronte che le nostre madri ci hanno lasciato o sugli errori che abbiamo fatto con i nostri figli. Con i miei nipoti, soprattutto con il primo, ho capito che per la prima volta ero completamente dalla parte del bambino. Non a caso nel libro torno alla mia infanzia e nelle paure, nei gesti e nelle risate di questo bambino rivivo i miei gesti e paure. È stato qualcosa di rigenerativo”. Anche in questo disvelare l’amore per un nipote la prospettiva rimane duplice, privata e pubblica... ma è nelle ultime pagine che riservi una sorpresa, quando definisci “fortunata” la tua generazione e ti spingi a chiederti se “sono state vere prove quelle a cui siamo state sottoposte” perché, scrivi,: “abbiamo lottato, ma non abbiamo rischiato morte o torture”. Che volevi dire? “Sono convinta che davvero la nostra generazione è stata fortunata. Bisognava lottare, ma eravamo dentro ad una trasformazione del mondo. La differenza con le giovani di oggi è che per noi c’era un’apertura che loro non vedono e sono schiacciate in una dimensione personale. E allora mi chiedo: se fossimo nate prima, se fossimo state poste di fronte alla necessità di prendere posizione contro il fascismo e costrette alle lotte clandestine oppure a lavorare, bambine, nelle fabbriche. È come se lanciassi un sasso, è una domanda che mi è nata dal cuore e la butto lì, quasi come un capitombolo finale”. È una domanda coraggiosa, un invito a riguardare - o addirittura a ridimensionare - il vissuto di una generazione ‘pesante’, un cambio di posizione che magari potrebbe aiutare le giovani a guardare le settantenni da un altro punto di vista…. “È vero, abbiamo rotto dei tabù: negli anni ‘70 la società italiana è cambiata profondamente con le nostre lotte, però siamo state in un movimento che ci ha concesso tutto questo”. E se fossimo state altre in un mondo altro, si chiede Piazza? A Wislawa Szymborska la chiosa finale:



“Conosciamo noi stessi solo fin dove

Siamo stati messi alla prova.

Ve lo dico

dal mio cuore sconosciuto”

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