. . . I vari personaggi sono prima figuranti e pian piano diventano protagonisti che raccontano la propria storia. . .
Ricostruire una Roma che non esiste più ‒ quella che è scomparsa tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta, la Roma subito dopo l’occupazione ‒ è l’intento di Valeria Della Valle ne La strada sognata (Einaudi, 2022). È la Roma silenziosa e spettrale, livida del primo racconto, degli anni prossimi alla Seconda Guerra Mondiale fino alla Roma del 1945 ad interessare l’autrice.
Livia, protagonista de La strada sognata, fugge da un’atmosfera familiare “da caserma” – il padre è un generale dell’esercito – per arrivare ad un’altra casa, quella dei Laszlo, borghesi ebrei genitori dell’amica Arletta, che per lei è l’altrariva del sogno ‒ silenzio e ordine, pavimenti di parquet luminoso e brillante di cera, tende di lino bianco che scendono fino a terra e i libri ben allineati nelle librerie di noce che occupano le pareti ‒solo giungendo però alla casa sulla strada sognata,e prendere lezioni di disegno, si troverà sicura di esprimersi. Perché in questa abitazione tutto è fatto di un disordine e confusione, che alla protagonista sembrano uno spiraglio di luce.
Approdare alla strada sognata, e lavorare presso il laboratorio di mosaico,è un punto d’inizio: lì infatti trova Giulio Doni, l’uomo che sposerà.
Lo sguardo di Adele si fa quello di Adele, soprannominata Dede, la figlia di Livia e Giulio. Dede vive felice con i genitori, nella casa dove il profumo dei mandarini e delle mele si mischia ai colori ad olio, si inquieta quando il ticchettio della macchina da scrivere di Giulio si interrompe, e il silenzio, che ne segue, si prolunga troppo. Dede gioca con Guenda e Gaia sulla terrazza della casa, a volte con i pezzi di porcellana dei piatti dai colori bellissimi e finiti a decorare nel cemento i vasi delle piante. E con loro si diverte a osservare quelle persone che lavorano (o ‘giocano’ come pensa la sua mente bambina) con i colori e con le carte; poi, le fantasie in terrazza con Guenda e Gaia iniziano ad assomigliare, sulla scorta dei film americani, a delle storie da seguire come fossero proiezioni, il loro sguardo entra e ricostruisce la vita degli altri, anche quelli che non conosce e non conoscerà. Qualcosa sta cambiando – e non è solo il fatto di crescere ‒ la città sta rinascendo, la vita e le attività iniziano a risvegliare Roma, e molti, per le ragioni più disparate,sono solo di passaggio o iniziano una nuova vita, per trovare quello che hanno perduto.
Adele spia, si diceva, le vite degli altri. E da questo sguardo che ruba la vita nascono le storie degli altri personaggi dei racconti. E finiscono per raccontare una Roma che si sta di nuovo rianimando, dopo la ferita perpetrata dalla dittatura e dalla guerra. È il caso di Doina, romena, arrivata per studiare all’Accademia e rimasta a Roma, nella casa sulla via sognata, dove ha sposato Daniele Ludovisi, attore dei film di cappa e spada; Giuditta Giuriati detta Ditta, bella e florida, che ha vissuto con Ilja Barea, scultore bulgaro, e continua a fissare un ritratto di Ibsen in bassorilievo (che altro non è se non un autoritratto dello stesso Ilja). Molte le donne su cui si sofferma lo sguardo di Adele: Alma Cantoni detta Almacantoni, in un’unica parola come viene scritto in uno dei racconti, o la signora Cortese, dalle occhiaie blu, o Nancy Smith, la bella americana venuta a cercare marito in Italia. Tutte figure alla ricerca di qualcosa: il venire a patti con il proprio passato, il ricercare il punto dove la guerra li aveva fatti desistere di un futuro più promettente, il bisogno di vivere di un nuovo inizio.
Il libro passa dal grigiore del primo racconto ai colori vividi e caldi: le figure sono per effetto di tono di ciascun colore. Valeria Della Valle lavora come un pittore tonale e di garbo. C’è molto blu: quello dei quadri di Fiore Agagian, che Livia vuole fare suo e che l’«avvolgeva» a lezione (pag. 24), quello degli occhi «blu luminosi» di Doina (pag.34). Ma anche qualche campitura di grigio e qualche macchia di rosso come «nei quadri di un pittore che si chiamava Capogrossi», oppure «i capelli fiammeggianti» di Doina (pag.79).
Con una scrittura chiara ed essenziale mai decorativa, ma ricercata, Valeria Della Valle riesce a costruire un libro intenso, alle volte malinconico, alle volte vicino a Moravia, ad Antonio Debenedetti, alla Banfi, pur riuscendo a rimanere autentica. Per fare ciò utilizza una narrazione in terza persona; un tono velato, quasi impressionista; un genere, il racconto, che permettere di esplorare più punti di vista; un numero limitato di testi ‒ sono (o solo) dieci ‒; e, non ultimo, lega queste narrazioni le une alle altre, tramite i personaggi. Che compaiono all’interno di una narrazione come figuranti per poi, successivamente, diventare protagonisti e raccontare la propria storia.
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