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La storia di Ninì, il libro di Marcello Bivona, L’ultima generazione

La storia di Ninì, il libro di Marcello Bivona, L’ultima generazione

La storia di una famiglia e di una comunità italiana che per generazioni ha vissuto in Tunisia, e che all'indipendenza di questa viene cacciata

Lunedi, 01/06/2020 - Marcello Bivona, L’ultima generazione, Besa Editrice, 2019

Quand’è che si lascia davvero un luogo? L’istante in cui abbandoniamo un Paese, una terra, definitivamente, e saliamo su una barca, un treno, un aereo: è quello il momento?
Marcello Bivona appartiene all’ultima generazione degli italiani di Tunisia, di quelle numerose famiglie che a fine Ottocento si sono riversate, per lo più dal Sud Italia, sulla vicina costa africana in cerca di una vita migliore e che, per le successive tre, quattro, talvolta persino cinque generazioni hanno vissuto lì, facendone la loro casa. E che poi, a un tratto, sono state costrette a lasciare quel loro mondo e a tornare in una patria che, in molti di loro, non avevano nemmeno mai visto.
Si potrebbe pensare che quando queste famiglie, con mobili e masserizie imballate, hanno visto allontanarsi la costa africana mentre la nave fischiava, abbiano tagliato il cordone ombelicale con quel luogo tanto amato. Non è così. Marcello Bivona aveva cinque anni quando si trovava a bordo di quella nave, ma il cordone non l’ha mai tagliato: da quel luogo non è mai veramente partito.
L’ultima generazione è un romanzo che ti si accomoda dentro a di cui è difficile liberarsi. La narrazione delle vicende, dei personaggi, è talmente ben delineata e così generosamente dettagliata, che spesso ci sentiamo anche noi parte di quella storia. Se poi anche la vostra identità è sbrindellata, allora attenzione: questo romanzo può essere pericoloso. Gli intrecci familiari si articolano intorno a quel groviglio di culture, a quel tripudio di lingue, dialetti e pietanze di cui chi l’ha vissuto comprenderà il sapore. E ne rimarrà stordito.
Nella Tunisia narrata qui, tra la fine dell’Ottocento e il 1956, quelli che chiameremmo ebrei, musulmani e cristiani erano semplicemente le famiglie che condividevano le feste religiose e gli eventi importanti, i cui figli scambiavano merende e giochi, filastrocche e modi di dire, risate, paure e sogni. I confini, le differenze erano spesso molto labili, anche fisicamente, basti vedere l’immagine in copertina: la famiglia Bivona potrebbe essere senza dubbio una famiglia tunisina, stessi tratti, stessi colori, quasi a sottolineare la medesima appartenenza. Interi quartieri del resto parlavano italiano, erano stati ribattezzati con nomi quali “La petite Sicile”.
Bivona, attraverso il suo romanzo, ha omaggiato un’intera fetta di storia: partendo dalla sua famiglia, dalla corposa comunità italiana di Tunisia, il suo sguardo amoroso abbraccia idealmente tutte le comunità italiane che all’epoca si trovavano sparse nel mondo, in particolare quelle di cui si sa poco, che non compaiono nei resoconti ufficiali delle grandi ondate migratorie italiane che sembrano aver riguardato solo le Americhe o l’Europa del nord.
Questo romanzo non è tuttavia il suo solo omaggio: Marcello Bivona è infatti autore di un importante lungometraggio, “Ritorno a Tunisi”, dove ha raccontato questa storia filmando i veri protagonisti, e continua a preparare film e documentari, quasi che obbedisse alla precisa missione di salvare la memoria di quegli italiani.
È commovente il modo in cui l’autore ricostruisce minuziosamente i giorni tunisini della sua famiglia fin da prima che lui nascesse, non solo negli eventi importanti, ma anche negli sguardi, gli screzi, gli amori, i piccoli gesti di grande coraggio. Notevole il lavoro di ricerca, di raccolta di testimonianze, di paziente dissotterramento di ogni singolo evento. Un lavoro che sembra non avere fine, visto che Bivona sin dal 1983 ritorna regolarmente a Tunisi, e a ogni viaggio, ogni via percorsa, ogni traccia ritrovata, sembra avvicinarsi alla sua Itaca, che ha il volto di una madre e di una madrepatria. Uno scavare che rasenta l’ossessione.
Questo romanzo potrebbe avere come sottotitolo “La storia di Ninì”, la madre dell’autore: è lei che instilla nel figlio l’amore per la terra lasciata, al punto da renderlo un perfetto portavoce, è a lei che ogni riga è dedicata, è per lei che nasce il libro, che è una ricerca ostinata di renderle giustizia, onore e omaggio. E sembra di vederla camminare spedita tra le pagine, tenace e bellissima, amorevole e presente, forte e fragile, lei che a quest’ultimo figlio sembra aver consegnato il lascito più pesante: raccontare per salvare la memoria. Il peso di questo incarico prezioso e doloroso è tutto a inizio romanzo, quando l’autore torna a Tunisi dopo la scomparsa della madre e ne risente la voce nei vicoli che furono suoi, in case ormai scomparse, in una nuova geografia urbana che ha squarciato il profilo di un tempo ma che niente ha potuto contro i ricordi. Che infatti da qui si snocciolano potenti. “Cosa cerco in questa città? (…) Cosa cerco nei miei pellegrinaggi ossessivi nelle strade e nei luoghi del ricordo? (…) So che devo camminare per recarmi ogni volta sui luoghi dei racconti, delle testimonianze, per giungere all’evidente conclusione che sono già passato da quella strada e che probabilmente mi sono fermato davanti a quella vetrina e che a passarci e a fermarcisi è stata anche la mamma. (…)”
Ed è proprio attraverso gli occhi della signora Ninì che ci immergiamo nelle spezie, nelle canzoni, nel bianco accecante delle case di Tunisi e ascoltiamo le chiacchiere tra amici e parenti, riportati felicemente nella loro lingua originale: un meraviglioso cocktail siculo-arabo-franco-maltese che era la loro lingua. Così, tra glibettes, cacahuètes, maccaruna ca sarsa e purpette e cassategge ca ricotta, si squadernano i giorni felici della giovinezza, quelli bui della guerra e dei campi di prigionia, i gesti di solidarietà, la vita da ricostruire, l’entusiasmo della rinascita e poi di nuovo la caduta, dovuta agli attriti con la meno numerosa comunità francese, prima, e con l’indipendenza tunisina, poi.
Nascono i bambini, spuntano gli amori, le donne sempre prese a cucinare, a tricottare, il tè alla menta pronto nella barrata, gli jnoun dispettosi che si divertono a spaventare nelle case, la faticosa ma felice fatica di sfamare i figli e portare avanti i giorni.
C’è un elemento che colpisce nella narrazione e che dà il senso del dramma vissuto: raccontare non solo per ricordare, ma per provare agli stessi protagonisti e al mondo che quanto è accaduto è storia vera, come se solo attraverso il riconoscimento dell’altro il dolore possa esistere, avere un nome ed essere elaborato. Come se solo così sia possibile ripetersi: è tutto vero, abbiamo davvero vissuto questo, non stiamo inventando, possiamo prenderci a pizzicotti ma non cambia nulla: quelli eravamo noi, quella era la nostra terra. “Una volta arrivato a Tunisi (…) la informavo dei miei ‘pellegrinaggi’: ‘Oggi sono stato alla nostra scuola’, ‘ho visto dove c’era la nostra casa’ (…) Una via crucis fatta di un’infinità di stazioni alla ricerca di luoghi familiari, come se ne avessimo bisogno per verificare la veridicità della storia”. E ancora: “Da allora, per tutti noi costretti ad abbandonare il nostro Paese, Claudia Cardinale non fu solo un’artista del cinema. Ritrovarla sullo schermo ci dava la certezza che tutto ciò che avevamo vissuto era vero. Leggere di lei sui rotocalchi (‘Claudia Cardinale, nativa di Tunisi…’) ci riscattava dall’essere stati abbandonati al nostro destino”.
Toccante l’emozione della Cardinale che si presta per una piccola intervista nel film sopracitato di Bivona, e che un giorno telefona a casa sua: “Buongiorno, sono Claudia Cardinale…volevo dirle che questa mattina ho rivisto il suo film e… ho pianto”.
Terribile il momento della partenza: quando la Tunisia raggiunge l’indipendenza e decide che i suoi figli che non hanno il suo passaporto devono sloggiare. Immaginate cosa significhi vivere da sempre, da diverse generazioni, in un luogo, averci fatto la scuola, essercisi innamorati, sposati, divertiti e addolorati, e poi scoprire che quel luogo non ci appartiene e, ancor peggio, non ci vuole. Occorre imballare una vita, recidere i legami, staccare le radici in malo modo. Da tonton Pierot, partito prima per Milano, arriva una lettera di incoraggiamento: “François, Ninì, qui c’è il lavoro e ci sarà un raggio di sole anche per voi”. Immediata la reazione dell’autore: “Un raggio di sole?!... Noi lasciavamo un luogo dove il sole non si misurava a raggi. Ti si appiccicava addosso e non ti lasciava più. Inondava il mare, il cielo, la terra, la sabbia e ogni cosa. Il riverbero sugli abiti bianchi ti accecava e dovevi chiudere gli occhi per dire basta a tanta generosità”.
Chi stabilisce qual è il nostro Paese? Con quale coraggio ci si arroga il diritto di assegnare una nazionalità quando si è nati e cresciuti in un luogo che non è quello indicato sul passaporto? Che ne sanno, coloro che non hanno mai cambiato città né abitazione, cosa significhi sentirsi profughi e stranieri ovunque? Lontani dal mondo lasciato forzatamente che col tempo cambia e non ci riconosce, esuli nella terra assegnataci dai documenti, ma che non riconosciamo. Tutto il romanzo è costeggiato da “la nostra città”, “il nostro paese”, “la nostra casa”, e non è dell’Italia che si parla.
Cosa sarebbe stato di quelle famiglie, di quelle persone, se fossero rimaste nel luogo natio, se non fossero state recise come carne viva da un corpo? Avrebbero avuto una vita serena tra le loro strade, nei loro mercati, coi loro amici di sempre? Una domanda che accompagna ineluttabilmente l’esistenza di ognuno di loro.
Sono esperienze dilanianti, da cui molti non si riprendono. Alcuni, per sopravvivere allo strazio, tagliano netto col passato rinnegando brutalmente quel luogo di provenienza; altri invece a quel luogo si aggrappano, dovesse anche separarli continenti interi, a dispetto delle mura del tempo e dello spazio: è il caso dell’autore.
Eppure occorre ripartire, rialzarsi in piedi e ricostruirsi dopo aver già perso tutto diverse volte. Accettare i letti sporchi e maleodoranti dei campi profughi, convivere col grigio panorama della nuova città, la nuova lingua da indossare e le risatine di chi non li capisce. “In paese si sparse la notizia che erano arrivati i connazionali dall’Africa. Certamente si trattava di povera gente da aiutare, in preda alla miseria più nera, scappata da un posto sconosciuto sulla carta geografica. Come spiegare che in quel posto sconosciuto ognuno di noi parlava almeno tre lingue, italiano, francese e arabo, che ognuno di noi viveva a contatto con diverse culture, religioni, modi di vivere, in quello che era un piccolo paradiso dove si stava bene e che nessuno avrebbe mai pensato di lasciare?”.
Erano giorni di rabbia e di vergogna, di sgomento e di frustrazione. In quel paesino lombardo, poi, c’era da affrontare l’esigua varietà di cibi e spezie, e allora Ninì e sua madre si arrabattavano per far gustare alla famiglia i sapori di sempre e farli sentire, almeno per un momento, a casa. Talvolta arrivavano preziosi pacchi da Tunisi contenenti meraviglie da centellinare con cura: cannella, chiodi di garofano e boccioli di rosa venivano triturati nel macinacaffè, e intanto il couscous veniva incocciato rispettando una tradizione ormai ancestrale. Erano mattine di profumi e di acquolina in bocca, di couscoussiera che fremeva sul fuoco: “Quelle mattine la mamma tornava a Tunisi”. E rivedeva a occhi chiusi “i frittellari”, “le passeggiate domenicali al parco del Belvedere e ai manèges dell’avenue Gambetta, con le scarpe ripassate di bianchetto e gli abiti bianchi appena stirati e odorosi di acqua di colonia”. Era questa “la terapia del ricordo”: “eravamo prigionieri di un ruolo dove le identità dovevano passare necessariamente da profumi, odori e sapori per essere riaffermate e tramandate”.
È sempre Ninì al centro della scena, è lei il vero cuore dell’obiettivo: le sue mani sapienti impegnate nella preparazione di pietanze, le tasche dei suoi grembiuli colme di “un repertorio ricchissimo di cose meravigliosamente inutili”, è lei che conserva tutto perché ogni cosa può servire, è lei che non trova mai gli occhiali e il borsellino, è lei che lascia i bigliettini sul tavolo della cucina: “Nella minestra ci devi aggiungere la pasta, buon appetito”, “Se la salsa ti sembra troppo spessa, quando la scaldi ci metti un pochino d’acqua, baci, mamma”. Piccoli immensi scampoli d’amore.
Le gant de toilette, le tirelire, le briquet sono alcuni dei francesismi di Ninì che, “dopo il rimpatrio, erano retaggio di un gergo familiare in via di sparizione. Aveva sempre qualcosa da raccontare: aneddoti, fatti vissuti, episodi della sua infanzia. Il riferimento a Tunisi era costante. Come la nonna, non concepiva che si potesse stare a guardarsi senza parlare, ‘Aia, cunta qualche cosa’, mi diceva quando le stavo seduto accanto in silenzio”.
Su Youtube è possibile vedere la presentazione di questo romanzo svolta nella biblioteca di San Giuliano Milanese, dove l’autore ha lavorato per molti anni. C’è un Marcello Bivona emozionato, che a stento trattiene le lacrime mentre legge alcuni passaggi della sua esistenza. Sono presenti, tra il pubblico, “i pochi superstiti della comunità italiana di Tunisi arrivati a San Giuliano”, l’ultima generazione testimone di questa importante pagina di storia, e l’autore li nomina uno a uno, Filippo, Andrea, Mariuccia Antonia, Stella… Che è come dire: possono confermarvelo anche loro, tutto questo è accaduto davvero, eravamo noi, era casa nostra, era la nostra vita.

Roberta Yasmine Catalano

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