Uno studioso, in vacanza sul lago di Como, trova nella sua cantina un vecchio manoscritto. È l’autobiografia di una donna, Maria Cristina, accusata di stregoneria.
Martedi, 16/10/2018 - Raffaele Taddeo, La strega di Lezzeno, Roma 2018
Se siete in cerca di un testo che, una volta chiuso, vi lasci la libertà di tornare alla vita reale, questo libro non fa per voi. La strega di Lezzeno è la storia di un uomo di oggi che trova l’autobiografia di una donna accusata di stregoneria nel Cinquecento. La sua verità è consegnata a una serie di fogli avvoltolati e nascosti in quella che fu la sua prigione-tomba in attesa del verdetto. Ebbene, l’autore trascina il lettore, per tutta la durata del romanzo, in quella buca insieme a lui, sotto la botola della cantina. Da quella prospettiva claustrofobica si dipana la storia della donna, le vicissitudini, le gioie, fino al crollo: l’accusa di stregoneria, le testimonianze dei compaesani, il processo. In realtà, ciò di cui viene accusata Maria Cristina, la protagonista, non è meramente di essere una strega, ma di essere diversa. Risiede qui la lettura-chiave del romanzo, il valore simbolico che ne estende la potenza e il senso ai giorni nostri.
Tutto il processo accusatorio si basa sulla stranezza della giovane, il cui primo peccato è quello di avere un padre che viene dagli Stati della Chiesa, quindi dal Sud (Lezzeno è in provincia di Como), a cui si aggiunge una sensibilità particolare nel percepire il profumo dei fiori o i segni del mutare del tempo. Una donna grondante di vita, che si esalta per un paesaggio, per la vista della luna, per l’amore di suo marito: tutte caratteristiche che non si allineano con quelle delle donne autoctone, né con i severi dettami della Chiesa che vorrebbe la donna sottomessa ed estranea a qualunque tipo di piacere.
È un romanzo sulla forza femminile e fa piacere che sia stato un uomo a scriverlo, ad ammirare questa donna pagina dopo pagina, anche quando il tifo per lei si fa timore e poi terrore e poi disperazione. Una donna fiera del suo essere donna, a schiena dritta, che non teme di sostenere lo sguardo degli altri, conscia com’è della sua rettitudine.
La trama non permette requie e si resta incollati al libro avidi di conoscerne l’epilogo, mai scontato perché ricco di colpi di scena. L’uomo che ritrova il manoscritto non si dà pace e noi con lui, seguiamo le vicissitudini e gli interrogatori a bocca aperta, sdegnati e inorriditi.
È un romanzo sull’estremismo religioso, e sul pericolo che esso rappresenta: “il pensiero succube della religione è il peggiore assassino dell’uomo. È questa la tragedia dell’essere umano. Pensare, credere di essere nel giusto quando lo dice una religione”. E attraverso la religione, è un romanzo sulla calunnia e le sue perversità: “Molto spesso la violenza dell’accusa contro una persona deriva dalla liberazione della paura di poter essere incolpati di quello stesso crimine. Chi grida molto forte di fronte al peccato di un altro, accusandolo, molto spesso è anche lui colpevole dello stesso peccato”.
Anche per questo l’epilogo, che qui non riveliamo, ha poca importanza: ciò che conta è la condanna a opera di un paese, il sospetto che serpeggia, lo studio di ogni particolare volto a confermare l’accusa. E la conseguente solitudine di queste donne, la cui unica sventura è di non essere sovrapponibili alle altre, di essere guardate di sottecchi, strappate alla vita, agli amori, e date in pasto all’oscurantismo, alle ignoranti certezze dei beceri abitanti del luogo accecati dal timore della fede, dalla paura dell’insolito, che viene quindi respinto come fosse una pestilenza da bloccare, un terribile pericolo da silenziare.
Ma soprattutto, è un romanzo sull’altro. E non stupisce che a scriverlo sia stato un uomo che all’alterità ha dedicato una vita. Lo straniero, il forestiero, il diverso, sono impersonati qui da molteplici personaggi, tra i quali Maria Cristina è solo l’acme. Molto bene è reso lo sguardo diffidente verso chi non è nato nel luogo in cui abita, anche se vi risiede da molto tempo. “Qualcuno aveva anche affermato che era meglio restare sempre al proprio paese o ritornarvi, perché il forestiero quando va a vivere da un’altra parte porta disagi, altera la cultura, porta via il lavoro e le donne.” O ancora: “Dall’altra parte c’è tutta una comunità che nel momento in cui può scorgere una colpa, una possibile deviazione in una persona non originaria del proprio ambiente, ne è contenta e tenta di dimostrare che si può vivere solo nel proprio paese di origine”. Ecco che allora la caccia alle streghe diventa la caccia a tutti coloro che hanno tradizioni diverse, origini altre, sentire differenti. Vi ricorda qualcosa?
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