Venerdi, 28/12/2018 - Ci sono molti modi di salutare prima di andare via. Tilde Capomazza lo ha fatto lasciandoci un libro, il racconto della sua storia. In Tivvù passione mia, Harpo 2016, narra le vicende di una ragazza del sud che rimane abbacinata dalle primissime trasmissioni televisive, quando i programmi iniziavano solo a una certa ora della giornata e in pochi potevano permettersi quell’elettrodomestico in casa. Nel palazzo di Tilde, il medico di famiglia apre le porte della sua abitazione il giovedì sera ai condomini per permettere loro di godere di quell’epifania concessa dalla scatola magica. E se una sera, per impegni improvvisi, la porta del dottore resta chiusa, c’è il vuoto dentro e la sensazione di aver perso qualcosa. Poi finalmente la mamma di Tilde cede alle rate e acquista un televisore e la figlia ne divora ogni trasmissione: dalle notizie al varietà, dalla pubblicità ai documentari. È il 1954. Tilde ha 23 anni, una smisurata curiosità, un bagaglio enorme di idee e tanta, tantissima voglia di fare. È una ragazza attivissima, brillante negli studi e presente in ogni iniziativa delle associazioni cattoliche in cui si muove agevolmente, tra eventi e riviste locali, teatro parrocchiale e manifestazioni culturali universitarie. Ma il suo sogno più forte è di lavorare per la televisione, ideare programmi, in particolare coniugare l’intrattenimento con la cultura. Le sue idee le lievitano dentro, ma per una ragazza – benché intelligente – di Pozzuoli degli anni Cinquanta, è davvero arduo arrivarci. Quando riesce ad avere un incontro col direttore di un giornale campano, capisce subito contro quale mostro deve combattere:
“Volli aprirgli il mio cuore e parlargli del mio interesse per il giornalismo, per la recitazione, insomma per delle attività più interessanti, più creative. All’inizio il colloquio era sereno, poi si riscaldò e finì in un violento contrasto quando lui, paternamente, mi disse di mettere da parte questi pensieri. Da ragazza cattolica e studiosa qual ero, avrei dovuto piuttosto progettare il conseguimento della laurea, l’incontro con un bravo ragazzo e una vita all’insegna della maternità e della famiglia. Io risposi secca: <> <>, urlò lui scattando in piedi e facendo cadere la sedia”.
Non sarà l’unica volta in cui le verrà ricordato che il suo scopo è quello di diventare moglie e madre, ma Tilde non si arrende: l’unica vera grande passione che sente è quella per la televisione, tutto il resto non la attira, si sente fedele al richiamo della creatività. Una creatività che la condurrà a scontrarsi con le ottusità della società dell’epoca, ma grazie alla quale riuscirà ad approdare, anni dopo, alla tanto agognata Rai, dove finalmente potrà dare libero sfogo a quello che sente dentro, realizzandosi come persona e come donna. Una donna controcorrente senza volerlo essere, anche se a un’amica che le chiede chi sia e cosa voglia risponde “Io voglio tutto!”.
Dopo una gavetta travagliata e tanto lavoro, nel 1977 nasce “Si dice donna”, il primo programma televisivo della storia italiana realizzato da donne per le donne, dedicato ai diversi aspetti della questione femminile, dal lavoro alla sessualità, dalla maternità alla famiglia, dall’aborto alla contraccezione passando per la politica. Tilde Capomazza ne è ideatrice e, quando serve, conduttrice. Una squadra di donne preparatissime gira l’Italia ponendo domande delicate. È la prima volta che le donne vengono intervistate dalla televisione e, soprattutto, è la prima volta che si chiede loro di esprimersi su questioni molto intime.
“Essere donna e intervistare una donna, non è cosa semplice. Ricordo soprattutto il rapporto di fiducia che si stabiliva durante l’intervista: ponevo domande di non poco conto sulla vita intima della donna che mi stava di fronte, lei mi guardava negli occhi e traeva sempre più coraggio ad aprirsi; ne venivano fuori le viscere e i sentimenti. Sembrava un colloquio intimo tra due amiche, ma io sentivo che lo scarto tra me e lei era enorme. Intorno c’era una troupe di sette uomini (…) e questi registravano le sue parole, i suoi gesti, a volte le lacrime; mentre io, ripresa di spalle e protetta dalla mia professione, restavo indenne. Mi pareva quasi di tradire la donna intervistata, che sarebbe stata vista da milioni di persone”.
Il successo della trasmissione è travolgente, anche alla luce dei venti di lotta di quegli anni:
“Eppure tutto questo era lavoro politico: processo di liberazione, affermazione di liberazione della donna, della sua diversità, dello sforzo che faceva nel tirar fuori pensieri mai detti, provocando le altre che erano in ascolto a ripensare se stesse. Anche le altre colleghe, che portavano testimonianze sui temi della maternità o del lavoro, dichiaravano di aver avvertito come un’esplosione scoppiata nelle menti e nel cuore delle donne”.
Tilde è nel pieno della sua emancipazione: ha abbandonato l’insegnamento, si è allontana dalla Chiesa, lavora per la televisione, vive a Roma, ha una compagna. Ce l’ha fatta.
Il mondo intellettuale commenta e partecipa alla trasmissione, nel libro viene riportato tra gli altri un articolo di Natalia Ginzburg a proposito della puntata sul lavoro casalingo. I collettivi e le riviste femminili tra cui “Noi Donne” collaborano, si muovono idee e speranze. In una puntata, una luminosa Monica Vitti si confronta con una suora sul concetto di vocazione. Provocazioni eleganti, lunghe preparazioni, temi fondamentali. Forse qualcuno a un certo punto ha ritenuto che fosse troppo. Nel frattempo è cambiato il vento politico in Rai e il programma, nonostante le proteste e una ricca programmazione già pronta, viene chiuso il 22 aprile del 1981. A Tilde assegnano un ufficio in cui non possa far sentire la sua voce e quindi nuocere. Personaggi televisivi ancora osannati la trattano con sufficienza per tarparne le ali fino allo stremo. Lei però continua a fare ricerche di archivio, a costruire video e a immaginare programmi. La sua curiosità e la voglia di approfondire non si fermano. Nel 2009, con Marisa Ombra, dà alle stampe il bellissimo libro con video dal titolo 8 marzo. Una storia lunga un secolo, Iacobelli editore, in cui svela la vera origine della commemorazione.
Nell’introduzione a Tivvù passione mia, Loredana Cornero (che a “Si dice donna” ha dedicato il suo libro La tigre e il violino, Rai Eri 2012) sottolinea l’importanza di quella trasmissione rivoluzionaria.
Quando Tilde parlava di quell’esperienza, si illuminava entusiasta come una bambina, raccontava con modestia, sfoderando quel sorriso che pareva rivestirla tutta.
L’anno dopo aver presentato il libro all’Unione Femminile Nazionale di Milano con cui collaborava, Tilde Capomazza si è spenta. Lasciandoci come testamento la storia di una donna entusiasta e cocciuta, solare e determinata, che ha vissuto la sua passione con rigore e sobrietà. Un generoso dono alle giovani di oggi che potranno prenderne esempio e raccoglierne il testimone. E ricordarsi che quando “Si dice donna”, si dice Tilde.
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