Conversazioni 'causali' intorno alle violenze subite dalle persone ricoverate nei manicomi: ferite non guaribili nelle coscienze di chi vuol sapere e ricordare
A volte, le giornate sono costellate di incontri a tema. Chiamale se vuoi coincidenze, questo è quanto capitato a me nell’arco di una mattinata: due persone mi hanno parlato spontaneamente e negli stessi termini dell’antico ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà in Roma, fondato nel 1548 e chiuso definitivamente nel 1999 a seguito della Legge 180/78, detta Legge Basaglia.
Quanto sto per scrivere è forte e ne ho raccolto testimonianza senza averla cercata.
La prima testimonianza mi viene data, nella sala d’attesa di uno studio medico associato, da una donna che dice di essere una dottoressa in medicina. Anch’ella, come me e mia figlia Arianna (giovane donna con autismo), è lì in attesa di essere visitata. S’interessa subito ad Arie, dopo avere appreso che frequenta un centro diurno all’interno del Presidio di Santa Maria della Pietà, dice di avere lavorato all’inizio della sua carriera proprio all’ospedale psichiatrico provinciale di Santa Maria della Pietà per accompagnare all’uscita i tanti pazienti, i quali in maggioranza - a suo dire - dopo tanti anni di istituzionalizzazione, non potevano più essere considerati psichiatrici ma oligofrenici. E fin qui niente di particolare, sennonché, la signora, come a voler condividere il peso gravoso che tale esperienza le ha lasciato, mi ha aperto qualche porta di quei padiglioni del dolore e dell’abbandono.
Dice che, prendendo in esame caso per caso, emerse che vi erano pazienti nati lì dentro: figli di due pazienti, la cui madre a volte era nota, ma mai il padre, che avrebbe anche potuto non essere un paziente. Persone mai uscite di lì, invisibili al mondo, cresciute e formatesi all’interno di un manicomio, senza andare a scuola. Esseri umani innocenti, eppure, ingabbiati come gli animali di uno zoo.
Dice di avere conosciuto donne ricoverate in conseguenza di una richiesta medica di internamento ottenuta dai propri mariti, i quali grazie a ciò si erano sposati di nuovo, che di queste storie se ne sentivano tante e che, a ben esaminare i casi clinici, si trattava spesso di donne molto depresse e fragili, le cui vite e i cui corpi erano oramai irrimediabilmente spezzati dalla istituzionalizzazione.
Dice che molti bambini orfani di madre e con una piccola disabilità venivano portati lì dai loro padri senza che ve ne fosse una vera necessità, divenendo dei dimenticati in vita, che questo accadeva anche ad adolescenti e a disabili adulti senza più sostegno familiare: tutti dentro il calderone della cosiddetta anormalità a patire ogni sorta di deprivazione.
Dice di avere visto uomini con gravi disabilità avere rapporti sessuali tra di loro: l’unica affettività da loro conosciuta, che nel momento in cui veniva a mancare, a causa del trasferimento di uno dei due, gettava nella disperazione entrambi mandandoli in crisi.
Dice di avere assistito a telefonate a familiari sedicenti ignari dell’esistenza di un loro congiunto internato o del quale sapevano ma vagamente, come fosse una di quelle cose che si sanno per sentito dire o, peggio, che si preferisce scansare.
Dice di avere assistito al momento del vitto, che veniva servito su un tavolo sul quale i pazienti si buttavano arraffando quel che potevano, spintonandosi e azzuffandosi, che anche a causa di ciò erano sempre pieni di lividi, perché l’aggressività e la violenza sono parte del mondo della sopravvivenza.
A questo punto del racconto, arriva il nostro turno e a visita finita la signora non la trovo più, ma le sue parole mi accompagnano per tutto il tragitto in macchina verso il presidio di Santa Maria della Pietà, dove mia figlia Arianna vuole andare a tutti i costi, anche se sarebbe un po’ tardi, ma lei sembra non potere proprio rinunciare alla pasta al sugo del venerdì, parte del vitto che oggi viene servito agli utenti del diurno e agli ospiti della residenza accomodati a tavola e in osservanza delle norme igieniche.
Ma la giornata e i suoi incontri a tema non sono finiti. Mi fermo all’interno del parco pubblico del presidio insieme a Bibi, la nostra paziente cagnolina pinscher ha aspettato il proprio turno nel trasportino, e mentre giochiamo arriva un altro cane e i due cominciano a rincorrersi al tondo, mentre il suo padrone e io vigiliamo, ed è a questo punto che, chiamale se vuoi coincidenze, arriva la seconda testimonianza.
L’uomo di mezza età è un operatore OSS in aspettativa.
Dice che dove ci troviamo adesso ci sono diversi centri riabilitativi. Io rispondo di saperlo perché anche le mie due figlie, entrambe con autismo, frequentano il posto, eccetera, e lui continua riportando di una zia ex infermiera del vecchio ospedale psichiatrico.
Dice che dei tanti racconti di lei gli è rimasto impresso quello dei bambini che piangevano troppo, per questo motivo portati in manicomio, che tra loro sua zia non ne vide uno solo tornare a casa: venivano abbandonati, anche dalle loro madri. Poi, incredulo e indignato, aggiunge: A impazzire!
Dice anche che le ragazze - Perché, sottolinea, ve ne erano di belle - venivano spesso abusate dal personale.
A questo punto, non posso trattenermi dal dire che, stranamente, un paio di ore prima, un’altra persona mi ha fatto un racconto analogo sull’ospedale psichiatrico in questione, che forse avrei buttato giù due righe al riguardo, che a volte scrivo di disabilità, ma sentito ciò l’uomo mi liquida su due piedi allontanandosi col suo lagotto romagnolo al seguito.
D’altronde, chi vuol parlare apertamente di certe cose che tutti sanno benissimo ma per sentito dire? Sono racconti le cui trame, come in letteratura, sembrano ammettere tutto, ma li si tiene relegati, come i loro tanti personaggi invisibili, a essere voci di corridoio. La storia nel suo insieme la si conosce bene, ma i singoli casi, le vite rubate e i corpi spezzati non avranno giustizia.
Eppure, assolutamente insopportabile, nel corso degli anni ho incontrato non pochi nostalgici dell’ospedale psichiatrico, i quali parlando con me hanno convintamente tirato in ballo la Legge Basaglia criticandola e parlando a vanvera, anche auspicando la riapertura dei manicomi.
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