Lunedi, 02/12/2019 - L’anniversario della caduta del muro di Berlino è stata l’occasione per riprendere in mano quella tragica storia e il contesto in cui è nata e si è sviluppata. Come è noto, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale l’alleanza delle forze contro il nazifascismo si ruppe per la volontà dei principali vincitori - gli USA e l’URSS - di controllare, egemonizzare, dividersi sfere di influenza. Il risultato fu la divisione del mondo in due blocchi contrapposti che corrispondevano a due idee alternative di società.
Fu allora che a livello mondiale un grande e invisibile muro, fortemente simbolico e minacciosamente reale, altissimo e invalicabile fu innalzato tra i popoli ben prima di quello di Berlino, a garanzia di una pace apparente, carica di tensioni, denominata non a caso “guerra fredda”.
Un muro che ha prodotto per lungo tempo una mutazione antropologica nelle relazioni politiche e non solo, come sempre avviene quando al dialogo si sostituisce la radicalizzazione delle differenti posizioni e l’altro diventa il nemico, un nemico e basta. In tutte le ricostruzioni lette o ascoltate in questi ultimi mesi, una domanda a mio avviso è rimasta inevasa: quale è stato l’impatto che la guerra fredda ha avuto nella vita e nelle aspirazioni delle donne, almeno di quelle che volevano la coesistenza pacifica e, per se stesse, una cittadinanza piena? Perché c’erano, erano ovunque ed erano tante. Nel ‘45, ad esempio, subito dopo la fine della guerra circa 800 donne provenienti da 42 paesi si erano riunite a Parigi e avevano dato vita alla Federazione Democratica Internazionale delle Donne (Fdif) al fine di combattere ogni forma di fascismo, impegnarsi per la pace e il disarmo universale, affermare i loro diritti. Tra le associazioni italiane oltre l’Udi erano presenti la Fidapa, la Fildis, l’Alleanza femminile, donne di partiti e sindacati antifascisti.
La divisione del mondo in due blocchi determinò un progressivo spostamento di questa rete verso una sola parte in conflitto, quella rappresentata dal blocco comunista, con il conseguente allontanamento di varie associazioni che renderà a lungo problematica la presenza dell’Udi che aveva espresso sin dal suo primo Congresso del ‘45 una convinta vocazione unitaria e si sentiva stretta nelle rigide maglie degli schieramenti.
Nei numerosi incontri internazionali della Federazione l’Udi non mancò di far sentire il proprio punto di vista, decisamente critico. Sostenne che le controversie internazionali dovessero essere affrontate e risolte mediante negoziati, senza ricorrere alla forza come invece stava accadendo; propose l’immediata sospensione degli esperimenti nucleari, anche quelli che si andavano facendo sul territorio sovietico: sul problema della pace e del disarmo atomico mondiale non intendeva fare sconti a nessuno, ritenendo una seria minaccia di guerra la costruzione di armi atomiche ovunque fossero dislocate e da chiunque fossero installate. Criticò fermamente l’operato della Federazione poiché non metteva al centro l’emancipazione femminile e ne denunciò la mancanza di autonomia, una autonomia assolutamente necessaria poiché, come scrisse, “per estendere la propria influenza per assolvere al grande compito di portare in relazione tra loro milioni e milioni di donne, la Fdif deve avere una sua politica, che la caratterizzi”. La tensione era sempre più evidente, la frattura inevitabile.
Lo strappo dalla Federazione si ebbe in occasione del “Congresso mondiale delle donne” che la Fdif tenne a Mosca dal 24 al 29 giugno del ‘63. Il primo giorno nella grande sala dei congressi al Cremlino erano presenti le più alte cariche dell’Urss di fronte a oltre duemila delegate provenienti da 119 paesi. Nella riunione che si tenne poche ore prima dell’inizio dei lavori, furono esaminati i rapporti da presentare al Congresso e ne furono respinti due, troppo allineati con la politica estera dell’Unione Sovietica, ma con un inaccettabile espediente furono riammessi. Le rappresentanti dell’Udi protestarono per i metodi antidemocratici e minacciarono di non partecipare al voto. Nel momento in cui iniziò la lettura di una delle relazioni contestate, le 70 delegate dell’Unione Donne Italiane sedute nelle prime file, tutte insieme si alzarono ed uscirono. Un gesto potente.
Era la prima volta che il dissenso interno si manifestava in modo così eclatante. Le comuniste della Presidenza nazionale dell’Udi presenti al Congresso furono subito convocate nella sede del Comitato Centrale del Pcus dove ebbero modo di spiegare a Boris Ponomariov, segretario della sezione esteri, le loro motivazioni, parlarono della loro consolidata pratica unitaria testimoniata dalla presenza tra le iscritte, oltre alle indipendenti, anche di donne socialiste, una delle quali era perfino negli organismi dirigenti della Fdif. Naturalmente Boris Ponomariov ridusse quel dissenso ad un problema interno all’associazione, smorzandone la forte valenza politica. L’Udi ritirerà nel 1964 le sue rappresentanti da tutti gli organismi della Fdif con una decisione presa all’unanimità dalle 518 delegate presenti al suo VII Congresso. Questa ben più complessa vicenda -ricostruita nei dettagli nel libro “Udi laboratorio di politica delle donne” scritto da Maria Michetti, Margherita Repetto, Luciana Viviani - è uno degli esempi tra i più emblematici dei danni prodotti dalla guerra fredda alla costruzione dell’emancipazione femminile in ambito internazionale.
Naturalmente anche nel nostro paese l’Unione Donne Italiane dovette fare i conti con la rottura del fronte antifascista che si determinò tra il ‘47 e il ‘48, ma nonostante la scelta di stare con le formazioni della sinistra, continuò a perseguire, pur tra innegabili ambivalenze e contraddizioni, una pratica trasversale, convinta che l’emancipazione, l’affermazione della dignità femminile fossero valori per tutte le donne al di là dell’appartenenza di classe o di partito. Questo suo convincimento teorico nella pratica trovò non pochi ostacoli proprio a causa del clima rovente tra i due maggiori partiti: la DC e il PCI. La guerra fredda era entrata fin dentro le coscienze e incistata nei modi e nel linguaggio della lotta politica. In verità, così come avevano fatto le Costituenti che al di là delle appartenenze avevano combattuto insieme la misoginia dei colleghi maschi durante la stesura della Carta Costituzionale, anche le donne dell’Udi, del Cif, le parlamentari DC, PSI, PCI in varie occasioni riuscirono ad oltrepassare il “muro” delle contrapposizioni per guadagnare leggi antidiscriminatorie a vantaggio di tutte e produrre elementi inediti di civiltà come nel caso del nuovo diritto di famiglia. Memorabile fu l’appello, purtroppo inascoltato, che nel 1954 le donne dell’Udi indirizzarono alle democristiane riunite nel congresso del loro partito; un appello che così si concludeva “Donne cattoliche, liberiamoci di ogni settarismo. Incontriamoci le une con le altre veramente come sorelle, così come ci incontrammo durante la lotta di liberazione nazionale. In questo X Anniversario della Resistenza, stringiamoci in una azione concorde Perché l’Atomica sia posta fuori legge Perché finisca la Guerra fredda Perché sia concesso a noi donne di allevare i nostri figli in un clima di serenità, di speranza, di fiducia nell’avvenire”. Se si tiene presente il livello di conflitto, di demonizzazione dell’avversario/a che caratterizzava quegli anni, questo gesto che potrebbe sembrare ingenuo, testimonia da un lato la tensione forte verso un altro modo di praticare il conflitto politico, dall’altro la convinzione che, restando unite, le donne potevano veramente cambiare le cose.
Va sottolineato inoltre di questo appello il riferimento alla sorellanza, cioè la relazione empatica tra donne come argine contro le logiche maschili dello stare al mondo. Mi sono chiesta con visionaria intensità cosa sarebbe successo se in quel tempo le donne avessero veramente avuto la capacità di restare unite, di darsi reciprocamente valore, guadagnare autorevolezza al proprio genere, fino a fare cessare la guerra fredda, i conflitti armati, la corsa agli armamenti, far riconvertire le spese militari in servizi e benessere per tutt* in un mondo di pace, come ripetutamente e in molte hanno chiesto nel corso di questa lunga storia. Certamente i tempi non erano maturi, ma quante morti, quante sofferenze, quanti tragici errori da una parte e dall’altra, all’Est come all’Ovest, si sarebbero evitati se fossero state ascoltate. Negli anni Settanta col neofemminismo la sorellanza diventò una vera e propria categoria della politica delle donne, ma ebbe purtroppo vita breve in quanto a partire dagli anni Ottanta iniziò quel lento processo di frantumazione del movimento delle donne che in parte ancora oggi abbiamo di fronte.
Io continuo a pensare che la sorellanza politica sia la grande scommessa da fare, un orizzonte verso il quale procedere con la forza che in tanti anni di lotte, di riflessioni, di elaborazioni abbiamo accumulato. Ne sono convinta perché so che questo presente non ci piace, ci sconvolge e spaventa per la deriva autoritaria, razzista, integralista, ma in primo luogo, ed è il caso di ripeterlo a voce alta, profondamente sessista. Nessun movimento misto, neppure quello antirazzista e antifascista delle sardine, che per fortuna c’è, riesce a capire che la lotta al patriarcato, alle sue strutture materiali e simboliche, è parte integrante, fondante, di qualsiasi progetto politico, culturale, sociale di liberazione umana. Siamo come sempre ancora solo noi donne a denunciare il sessismo patriarcale come ostacolo per la democrazia, la pace e la libertà di tutte e tutti e lo stiamo facendo in tanti paesi del mondo nel nome di un femminismo transnazionale e intersezionale: una forza inarrestabile che sta però scatenando ovunque reazioni feroci che rischiano di farci tornare indietro di secoli. In questo scenario inquietante è necessario che le varie anime del femminismo si parlino e sappiano trovare le pratiche giuste, le giuste connessioni, le possibili alleanze per contrastare questa deriva fitta di muri, vecchi e nuovi, e per imprimere una accelerazione alla costruzione di una inedita civiltà umana iniziata oltre duecento anni fa grazie alle lotte, all’intelligenza, alla passione di tante.
Noi donne abbiamo da dire cose radicali, necessarie per decifrare la complessità del mondo, i suoi problemi, le possibili soluzioni. Abbiamo perciò molto ancora da fare. Cerchiamo di farlo tutte insieme e, quando è possibile, anche con quegli uomini che stanno prendendo faticosamente le distanze da un modello maschile tradizionale, estremamente pericoloso anche per la loro libertà e felicità. Oggi forse è possibile.
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