In ‘Sono ancora qui’ lo scrittore brasiliano racconta la storia della sua famiglia dopo l’arresto del padre, tra i desaparecidos della dittatura. Al libro è ispirato il film di Walter Salles, premio Oscar nel 2025
“Essere vittime può essere comodo, ma non produce nessun effetto positivo, bisogna essere guerrieri”. A partire da questa riflessione Marcelo Rubens Paiva, intervistato da Marco Damilano in occasione di ‘Libri Come’ (Festa del libro e della lettura, Roma marzo 2025), ha condiviso il senso della dura esperienza vissuta in quanto figlio di un desaparecido. Una storia attraversata dal dolore ma libera dall’odio, intessuta di orgoglio e riscatto come rifiuto di una narrazione pubblica che avrebbe voluto inchiodare questa famiglia ad un’immagine stereotipata del dolore.
“Il libro racconta una storia di resistenza, di amore e di giustizia e di come la mia famiglia abbia saputo resistere a così tante difficoltà grazie all’impegno e alla militanza rifiutando, appunto di sentirci vittime” sottolinea l’autore, facendo suo l’insegnamento della madre nei confronti dei suoi cinque figli, educati alla dignità e al valore del sorridere.
Il libro di Paiva, tradotto da Marta Silvetti, è stato pubblicato in Italia da La Nuova Frontiera, coraggiosa casa editrice indipendente che da sempre intercetta le voci più interessanti del panorama letterario latino-americano. L’intensità della storia è stata notata anche dal regista Walter Salles il quale, ispirandosi al libro, ha realizzato il film dal titolo “Io sono ancora qui”, vincendo il Premio Oscar come miglior film internazionale nel 2025.
Marcelo Rubens Paiva nel libro, pubblicato in Brasile nel 2015, ha raccontato del padre, deputato laburista e ingegnere civile destituito dopo il colpo di stato del 1964, e della madre Eunice la quale, come usava nelle famiglie borghesi degli anni 60/70, preparava il soufflé e serviva i drink agli amici riuniti a chiacchierare e ad ascoltare musica nella loro villa in riva al mare a Rio De Janeiro.
Nel 1971, quando Marcelo aveva 11 anni, tutto questo cambiò. Il padre venne sequestrato dai militari e torturato mentre mandavano a tutto volume le canzoni di Roberto Carlos per non farne sentire le urla. Di lui non si seppe più niente.
Per vari giorni fu imprigionata anche la madre, poi rilasciata perché non aveva informazioni da dare. La donna si ritrovò da sola con cinque figli da crescere, senza nessun sostegno economico non potendo utilizzare i soldi e i beni della famiglia in quanto ufficialmente non aveva uno status di vedova.
“Ci trasferimmo a San Paolo e mamma riuscì a laurearsi in legge diventando avvocata - ha ricordato Marcelo -. Studiava continuamente alzando gli occhi solo per controllare che noi bambini non avessimo ‘dato fuoco alla casa’. Non voleva lottare solo per i suoi diritti ma per quelli di tutti, perché non era solo la nostra famiglia ad essere stata vittima della dittatura, ma tutto il Brasile. È stata lei a promuovere la norma che trasformò i desaparecidos in defunti; dopo 25 anni e grazie alla legge 9140 mio padre fu dichiarato morto. Mia madre continuò il suo impegno politico: lottò per la democratizzazione del paese, per la costituente, per ottenere le elezioni dirette, per la difesa dei diritti degli indigeni in Amazzonia”. Una donna straordinaria che “non ha mai provato compassione per sé stessa e non ha mai chiesto aiuto, anzi è stata lei ad aiutare tutti”.
È lei la vera protagonista di “Sono ancora qui”, che Marcelo Rubens Paiva decide di scrivere quando la madre si ammala di Alzheimer. “Il libro doveva diventare la sua memoria, la sua testimonianza di una vita difficile ma carica di amore e fiducia negli esseri umani e nella comunità perché il ruolo dell’arte e della letteratura è anche quello di mantenere la memoria”.
Il tema della memoria è stato un elemento importante dell’intervista e lo scrittore e drammaturgo ha osservato come il viaggio nella storia della sua famiglia “sia diventato un percorso corale che, andando oltre il Brasile, accomuna tutte le dittature e i desaparecidos di tutto il mondo”, riflessione che ha portato Marco Damilano ad indicare, amaramente, i pericoli della nostra società che sembra smarrita. “Se non conserviamo la memoria storica non potranno essere superati i traumi collettivi – dice, e conclude -. Né con l’amnesia né con l’amnistia: non bisogna perdere la memoria storica; finché i traumi rimarranno tali non potremo mai ricucire la nostra comunità nazionale”.
Uscendo dall’Auditorium Parco della Musica, dove si è tenuto l’incontro, ho visto Marcelo che, sorridendo, gareggiava con una bambina: lei correva e lui la inseguiva con la sua sedia a rotelle.
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