Un racconto durissimo dell’intermezzo che tra la seconda metà del ’43 e la liberazione del ’45 scosse gli italiani
Ha sedici anni Iole, la protagonista "La figlia del ferro" di Paola Cereda (Perrone editore, 2022), ed è figlia di un anarchico ucciso dai fascisti. La ragazza ha una qualità: sorride sempre. Anche se è consapevole di cosa sia la guerra e quali siano le privazioni che essa comporta. Ed è proprio questo a farla «resistere persino sotto le bombe, nella solitudine, davanti alle menzogne».
All’inizio del romanzo Iole, pur non avendo più nessuno della sua famiglia vivo, ha ancora tanta fiducia nel mondo (cosa che manterrà).
La ragazza vive sull’isola d’Elba, che è stata lontana dal fracasso dei mitra, dei caccia e delle bombe, ma dopo l’armistizio si ritrova le sue stradine colorate dal blu della Marina e del grigioverde dei militari. Giovani marinai e soldati stranieri riempiono gli spazi lasciati dagli isolani partiti al fronte.
Per sopravvivere Iole lava gli indumenti degli isolani (tentando di levare via, oltre al sudiciume, anche le loro meschinità).
«Che importa dei giudizi della madre e della gente: se c’è qualcosa che, a spremerlo, dà energia e movimento, prendiamocelo adesso» si domanda. E nonostante il disprezzo dei più per colpa del padre anarchico e l’ancestrale astio delle donne «nei confronti di una giovinezza che appartiene a qualcun altro» Iole va avanti, anche se sola (la famiglia di Iole si è frantumata, divelta dall’interno, disseminata in varie parti dell’isola e d’Italia).
Questo perché è pienamente a suo «agio dentro i peccati» che scandiscono le giornate sue e di quel coriandolo in mezzo al mare, tra le macerie che si accumulano, i tetti sventrati delle case, i rastrellamenti, gli stenti, gli stupri, i morti, le bombe dei nemici e degli amici liberatori.
Nel corso di un bombardamento rimane uccisa Luciana, la sorella di Mario, il ragazzo di cui è innamorata. Il contrasto continuo fra elementi distanti (l’amore e la morte; la guerra e la felicità) è una delle caratteristiche del romanzo. A differenza di Iole, gli altri sembrano non aspettarsi più niente: non la fioritura delle ginestre, non la vendemmia di settembre. Iole, anche se rimasta sola, però, non cede, sembra sempre sul punto di mollare la presa ed è invece in costante tensione col mondo e una realtà barbara, fatta di voci sul suo conto e giudizi sommari.
L’occupazione è raccontata in modo drammatico, come lo è l’operazione di liberazione condotta dalle truppe francesi. Nel 1944 l’isola, infatti, diventa obiettivo strategico e simbolico dei francesi. Lo sbarco è violento e raccontato, questa volta, anche grazie allo sguardo “parziale” di Ibrah, uno dei soldati coloniali francesi, che ha combattuto una guerra non sua.
Il romanzo, infatti, scorre insieme allo scorrere della Storia, ne amplifica il carattere angoscioso e incerto pur cercando di far emergere quel substrato umano che tiene incollate le persone alla vita. Paola Cereda non risparmi la verità al lettore come ad esempio le botte prese da chi non aveva nulla da dare ai soldati affamati e distrutti da una guerra logorante.
L’altro elemento dell’intero romanzo sono il racconto dei crimini di guerra perpetrati sia durante l’occupazione nazista (emblematico il caso dei detenuti fucilati sulla spiaggia di Procchio), sia da parte delle forze alleate (l’affondamento di un piroscafo con oltre trecento civili a bordo che, non essendo stato ridipinto dopo il suo utilizzo militare, venne scambiato per una imbarcazione nemica), sia da parte dei francesi che liberarono l’isola. Le quarantotto ore successive alla liberazione (avvenuta il 17 giugno 1944), infatti, furono segnate dalle violenze dei francesi, dall’adrenalina di quei ragazzi che avevano avuto la fortuna di aggirare la morte. Senza più nulla da perdere si resero protagonisti di veri e propri scempi, anche Iole vivrà questi soprusi. Paola Cereda non giudica, semplicemente commenta, ad un certo punto, solo con queste parole «la guerra trasforma un uomo in un soldato, e un soldato in guerra ha un nemico e un alleato. Quando non sa più chi è il nemico e chi è l’alleato, un soldato non è più un soldato: è lui la guerra».
Grazie a una lingua piana e misurata, quasi fosse al servizio della storia, "La figlia del ferro" si configura come un romanzo storico di grande spessore. Il mondo descritto da Paola Cereda ne "La figlia del ferro" – che ha concorso alla XLI edizione del Premio Comisso – è quello dimenticato dalla storiografia patria, di una civiltà povera ma non misera, dignitosa e pronta a darsi sostegno, ma altrettanto rapida nel buttarsi addosso la croce, nell’edificare e rafforzare lo stigma, nel nascondere quello che è stato, ciò che tutti sanno.
Un racconto durissimo, asfissiante in taluni passaggi, ma reale dell’intermezzo che tra la seconda metà del ’43 e la liberazione del ’45 scosse gli italiani; una breve ma cruciale parentesi, sovente fonte di imbarazzo, spesso messa da parte, se non dimenticata dalla narrazione ufficiale.
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