Sabato, 01/07/2023 - L'idealismo del libro di Daniela Piana, 'La città ideale' edito da Divergenze, la profonda sensibilità umanistica racchiusa nelle sue pagine, ci hanno mosso ad un confronto diretto con l'autrice.
Professoressa Piana, la sua opera è scritta con uno stile ed un linguaggio che evocano i modi del Calvino autore delle 'Città invisibili'. Anche per questo viene da chiederle che cosa l'abbia portata a confrontarsi con il tema della città ideale: forse l'invivibilità di alcune città contemporanee?
Coglie nel segno sul fatto che Calvino sia un autore di grande ispirazione per me. Ho scritto 'La città ideale' a seguito di una importante riflessione metodologica inerente alle nozioni di 'dato' e di 'evidenza empirica'. Mi sono resa presto conto che qualcosa sfuggiva alla nostra comprensione, quindi al nostro comportamento. L'esperienza globale della pandemia ha contribuito poi a farmi ragionare, come intellettuale, sulla insufficienza di alcuni linguaggi, parlo soprattutto dei linguaggi naturali e matematici. C'è forse dell'altro che sottovalutiamo. Ho quindi pensato di trattare un tema che poco alla volta ho portato a maturazione, ovvero il tema dell'effettività dei diritti della persona. In questo senso,' La città ideale' può essere visto come un accorato incoraggiamento ad un pensiero consapevole, capace di mettere al centro due cose: l'autonomia della persona e la cura delle nostre radici.
In numerose occasioni, Professoressa, il suo libro sembra sviluppare preziose osservazioni sul concetto di limite: il limite sembra la grande sfida di questa nostra umanità, è così?
Assolutamente. Noi abbiamo un pessimo rapporto con i limiti, soprattutto con i nostri, con i limiti personali. L'altezzosità, l'arroganza del nostro atteggiamento, quasi una hybris in senso greco, fa sì che il nostro comportamento si ripercuota negativamente sul contesto sociale. Diventiamo tracotanti. Nel mio libro affronto il tema del limite trattando del bambino Azzurro, un bambino autistico. Azzurro diventa quindi per me l'occasione di considerare che ciascun essere umano ha i suoi limiti e le sue fragilità, dovremmo pertanto imparare a rispettare il limite vissuto, sia esso rappresentato dai fallimenti, dalla malattia o dalle aspettative infrante sulle forze che pretendevamo di avere e che invece non troviamo. L'accettazione del limite è il nostro primo passo. Credo di essere cresciuta molto, umanamente, grazie al fatto che per il mio lavoro mi sono spesso interfacciata con i professionisti del mondo medico, specialmente pediatri. Ho imparato a considerare meglio la problematizzazione dei diritti dei più giovani, con uno sguardo ed una prospettiva affini a quanto è scritto ne 'La ballata di Adam Henry', il romanzo di Ian McEwan che affronta numerose questioni aperte sulla difficoltà di garantire al meglio il benessere dei minori. Credo che la chiave di tutto sia il rispetto dell'alterità, nell'autonomia della sua personale esperienza del limite, in altre parole: riconoscere umilmente che ciascuno di noi è una vita che esperisce personalmente alcuni particolari limiti.
Cito dal suo libro: «Chi dà attenzione impara l'ascolto del bisogno altrui, e quella cura ha a che vedere con la costruzione del noi». In passi come questi parla di una vera e propria «grammatica della vicinanza», strumento indispensabile per la convivenza civile. Può dirci di più sul suo concetto di pluralità?
Nel mio libro descrivo e tratto di una città che è ideale proprio in ragione del fatto che al suo interno, socialmente, tutti quanti noi possiamo partecipare e contribuire - ovviamente accogliendo i nostri e gli altrui limiti. È qui che origina il pronome «noi». La città ideale è declinata necessariamente in chiave corale e, poiché noi siamo perituri per definizione, il «noi» a cui mi riferisco è soprattutto un noi che fa tesoro della Storia e che guarda ai bambini, alle bambine, al futuro, alle generazioni a venire.
Le pongo una domanda che forse le suonerà vagamente provocatoria: non le pare che molte volte il «noi» finisca persino per schiacciare l'«io»?
Le rispondo, se posso, con un racconto. Si tratta di un racconto che di fatto riformula un'esperienza che ho portato avanti lavorativamente nel 2017 - e che ha poi ratificato e confermato la validità di alcune mie intuizioni.
Mi trovavo, allora, a fare ricerca all'estero ed ebbi la possibilità di interagire con una classe di liceali alloglotti, provenienti da diverse parti del mondo, nonché da famiglie eterogenee, spesso di rifugiati. I ragazzi e le ragazze che conobbi avevano storie e vissuti drammatici o dolorosi.
Decisi di avviare con loro una sperimentazione, proponendo un'attività basata su un linguaggio più intimo, più vicino a quello che io definirei "il linguaggio del cuore": il disegno. Chiedo quindi loro di disegnare, anche per non metterli a disagio, obbligandoli a parlare una lingua lontana dall'affettività, dai sogni, dalla vita interna. Volevo un linguaggio capace di codificare le loro effettive emozioni. La mia richiesta era che disegnassero una loro città ideale, intesa come una città in cui tutti desidererebbero vivere. Mi ricordo di aver chiesto un lavoro individuale, in quel momento, in modo che nessuno prendesse spunto dalle idee altrui ma elaborasse la propria città ideale, faccia a faccia con se stesso o se stessa. Ne è venuto fuori un lavoro ampio, interdisciplinare: l'insegnante di musica li ha poi accompagnati ad immaginare persino una musica della città ideale e una danza. Mi suona ancora nella testa il ritornello, di incredibile intensità: «il cuore di ciascuno batte nello stesso modo, perché il cuore di tutti batte piano piano». Da brividi.
Ma torniamo ai disegni. Mi colpì, prima di tutto, che gli studenti provenienti dalla Cina avevano immaginato una città estremamente accogliente con sovrabbondanti grattacieli, per dare un alloggio a tutti. Alcune ragazze dell'Afghanistan avevano disegnato invece delle sedie accanto ai letti, per poter accogliere degli ospiti in più. Alcuni studenti provenienti dal Mali avevano disegnato una città costruita a ridosso di cinque fiumi, immaginando di poter sopperire alle frequenti crisi di approvvigionamento idrico del loro vissuto. Dei ragazzi brasiliani avevano in ultimo immaginato una città con numerosi campi da calcio, per far sì che tutti potessero giocare.
Racconto questo perché è cruciale valorizzare la combinazione “in contesto” storico e culturale di valori universali e di esperienze che sono invece locali, legate ai territori. In fondo i ciliegi non hanno lo stesso profumo in due luoghi diversi perché ne tratteniamo significati diversi.
In queste rappresentazioni che le ho appena descritto si evince quel «noi», un noi pensato e sentito con straordinaria intelligenza affettiva. Con questo esempio voglio quindi rispondere alla sua domanda. Di per sé, un «noi» pensato in questo modo non castiga e non schiaccia; esiste dunque la possibilità di un «noi» davvero accogliente ed inclusivo, in cui ciascuno possa dare dignità alla propria storia.
Leggendo il suo libro, ho avuto talvolta l'impressione, forse erronea, di una certa sua nostalgia, mi dica se sbaglio, per l'Italia rurale del dopoguerra, un'Italia ancora "artigiana", difesa in un certo senso dallo stesso Pasolini...
In effetti, nel mio libro io mi riferisco spesso all'Italia del dopoguerra come a quella Italia che aveva una certa coesione sociale strettamente legata, appunto, alla drammatica esperienza del limite. Dopo aver fatto la più drammatica esperienza di limite umanamente possibile, la guerra, l'Italia sosteneva la temporalità della natura, curava la terra con i suoi cicli, ne rispettava le stagioni. Io non ho mai sentito le donne (parlo di quelle donne che ho avuto accanto nell'arco della mia vita) lamentarsi del proprio limite rispetto ai cicli della natura. Mai, l'ho sentito. E me ne sono resa conto perché ad un certo punto ho notato, nell'oggi, una ostinata tendenza a voler negare il limite della ciclicità naturale; tarpando così, implicitamente, la straordinaria forza della natura. Lei menzionava l'artigianato. Trovo appunto che l'esperienza dell'artigianato sia molto legata ad una dimensione di femminilità che si esprimeva nella cura, anche nel mondo del lavoro. E questo lo dico senza voler fare alcuna apologia di un'età aurea. Riconosco però delle cifre, dei metri, delle metriche di un modo di essere al femminile che ha a che vedere con la creazione, nella sua naturalità, senza voler conferire a tutto questo un particolare valore morale. Entrambe queste mie ultime riflessioni supportano la consapevolezza che noi siamo vita in un tempo storico, siamo ricchi di un patrimonio che è esistito prima di noi e che ci ha preceduti, siamo tuttavia debitori alle generazioni a venire.
Per concludere, vorrei quindi sottolineare il proposito di dare corpo ad istituzioni durature, pensate per l'avvenire. È cosa quantomai opportuna, io credo, pensare la Costituzione per i nostri bambini. La nostra Costituzione è il tempio edificato per il futuro più lontano, ed è in parte, come ebbe a dire Calamandrei, ancora una promessa, un programma, un progetto.
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