L'autrice non vuole demolire l’amore, ma vuole superare ogni stereotipo che è imposto dalla società...
Ha gli elementi di una favola irriverente La bottega dei giocattoli di Angela Carter ‒ scrittrice inglese, morta a soli 55 anni, e autrice di alcuni romanzi saggi e racconti che Fazi da un paio di anni stata ripubblicando ‒ con cui ha vinto il premio Jon Llewellyn Rhys nel 1967. A quasi trent’anni dalla sua morte, la prosa e l’inventiva della Carter e l’impeto della provocazione, della fantasia, della scrittura immaginifica, arricchita da stravaganti effetti rubati ad altre arti (teatro, cinema, circo), è ancora forte e vivo. Il suo ruolo era quello di demitologizzare la letteratura, come ha dichiarato in diverse interviste l’autrice. Non amava i cuori spezzati, le masochiste eroine di Jean Rhys, di Edna O’Brien o Joan Didion che, pur lamentandosi, non si scrollavano di dosso un destino loro imposto.
Angela Carter si definiva socialista e prodotto ‘genuino di un paese industrializzato, post-imperialista, in declino’. Estroversa e dotata di una grande e sottile immaginazione, era molto amata da scrittori come Lorna Sage, Margaret Atwood, Salman Rushdie, Ali Smith, Marina Warner.
Un’infanzia segnata dalla guerra, ma anche protetta dall’affetto della nonna quella della Carter, che finita la guerra, si laurea all’Università di Bristol in letteratura medievale, le cui caratteristiche morali ed estetici del gotico inglese influenzano profondamente la sua scrittura. A questa passione si aggiunge quella per lo storyteller e la favolista, a cui la scrittrice darà una nuova voce e un’irriverente veste letteraria. Nella sua narrativa la scrittrice britannica non solo sovverte il ruolo del padre patriarca, ma non fa della donna quasi mai una dea-madre. Spesso il ruolo della casa è simbolo della cultura in cui si è nati, del passato, dell’eredità (anche letteraria e non) individuale e collettiva.
La bottega dei giocattoli ha per protagonista Melanie, una quindicenne, che una notte, sola in casa, ruba l’abito nuziale della madre e va nel giardino di casa, passeggia nel buio e si lascia di tanto in tanto accarezzare dal bianco lunare. Melanie, fino allora la ragazzina capricciosa, non sa resistere alla tentazione e si concede a qualcosa di proibito, e lo fa divertendosi. Scopre, così, il proprio corpo. E lo percepisce come mai aveva fatto prima.
Questa scoperta diventa cambiamento: non è più una bambina, e il suo migliore amico diventa lo specchio, si allontana dall’infanzia, da alcuni recinti immaginari intorno a lei. e il racconto prende una piega curiosa, se non fantastica.
Poco dopo, quando Melanie e i suoi fratelli rimangono orfani, vengono affidati allo zio. A causa forse di un incantesimo, la moglie di quest’ultimo è diventata muta dal giorno in cui si è sposata. E a questo punto, con i ragazzi che si trasferiscono nella loro casa, si aggiungono altri elementi a quello favolistico e il romanzo diventa un romanzo di iniziazione (anche sessuale). Ma con un’atmosfera particolarmente fosca ‘da romanzo gotico’. L’ atmosfera si fa sempre più cupa nella casa dello zio; si avvertono misteri dietro quelle porte chiuse simili a quelli della casa di Barbablù; lo zio domina in modo claustrofobico i legami amorosi che sono presenti sotto il suo tetto.
Lo zio fabbrica giocattoli, allestisce spettacoli di burattini e sembra manovrare le persone della sua famiglia, come fossero burattini. La sua autorità è tutto. Ad iniziare dalla moglie, alla quale ha regalato una collana che più che abbellirla le stringe il collo, come un collare. Poi, ci sono i due fratelli della moglie, ormai assoggettati come due servi. Qualcuno ha voluto vedere in questo un riferimento alla questione irlandese sia perché la famiglia della moglie è irlandese, sia perché in modo più o meno evidente, l’autricesi si sofferma su dettagli come il colore rosso dei loro capelli, o la musica che suonano, o la spilla a forma di arpa di uno di loro. Elementi che fanno immaginare che la critica sociale (l’oppressione della donna) e quella politica (l’oppressione e gli scontri, qui solo eco, dell’Irlanda da parte della Gran Bretagna) siano più di una suggestione. Raccontata e descritta non in modo diretto, ma attraverso simboli e allusioni come nelle fiabe.
Una volta giunta nel negozio dello zio, Melanie impara a difendersi dalle vere insidie dell’età adulta, prima fra tutte la sua curiosità e la sua ostinazione. Melanie è attratta fin da subito dal giovane Finn. E anche la sua vera iniziazione sessuale si capisce, a detta delle stesse parole di Finn, è manovrata dallo zio burattinaio, che prima ha messo in scena addirittura uno spettacolo con Melanie nella parte di Leda violata dal cigno, poi ha mandato lo stesso Finn a sedurre la ragazza (una seduzione però si rivela deludente e che non porta a nulla).
Il finale è un rogo che tutto distrugge e con un dramma finale degno di Jane Eyre di Charlotte Brönte, ma a differenza di Jane l’unico pensiero di Melanie è per il suo orso di pezza, il ricordo della sua infanzia, “finito. Tutto è finito”. Si capisce, allora, che il fuoco libera Melanie e dalle ceneri della casa nasce una Melanie adulta.
Con questo romanzo Carter de-mitologizza la perdita della verginità così cara al mondo patriarcale. Sdogana il patto fatto sul lenzuolo bianco da esibire. Carter si abbatte contro ogni sentimentalismo, sospiro o pudore: descrive la sessualità femminile con delicatezza e con la schiettezza che sempre la contraddistingue. Non ha problemi nel raccontare gli impulsi.
All’inizio del romanzo si fa riferimento a Lawrence e con lui si fa riferimento all’idea di un sesso come unione tra spiriti affini, come espressione di completamento. Ma Carter, con una salace ironia, si allontana dall’idea di Lawrence: è dato ad altre scrittrici il compito di seguire le orme dello scrittore de L’amante di Lady Chatterly. Angela Carter non vuole demolire l’amore, ma vuole superare ogni stereotipo che è imposto dalla società. Ha dalla sua una letteratura codificata come Pope, Sterne (del Tristan Shandy). C’è poco in Melanie dell’eroina inglese dell’800: una Jane Eyre o una Elizabeth Bennet. La verginità è un peso che grava sulle donne; qualcuno deve prendersi pur l’onere di liberarle, l’amore è, invece, un’altra cosa, non legata per forza alla sessualità. Così come il sesso non è necessariamente legato al sentimento.
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