Frutto di una lunga esperienza professionale, il saggio ‘Etica per il medico giusto’ è un vademecum che offre al medico 'attrezzi etici del mestiere' per affrontare la giungla dei dilemmi morali che si palesano al letto del malato
Il tema della 'Fraternità' è affrontato nelle sue molteplici sfaccettature durante il Festival di Bioetica organizzato dall’Istituto Italiano di Bioetica. L'evento, giunto alla nona edizione, si tiene a Rapallo il 29 e 30 agosto. Alla fraternità nell'ambito della cura è dedicato un panel in cui interviene Giorgio Macellari, portando la sua lunga esperienza di senologo e oncologo, esperienza 'sul campo' che ha declinato anche in ambito divulgativo firmando numerosi saggi. Nel 2025 è uscito il suo ultimo libro "Etica per il medico giusto" (Il pensiero scientifico), una "guida, ma anche una bussola, per orientarsi tra i mille incroci morali che un professionista della salute incontra lungo il cammino" ha scritto Giuseppe Remuzzi nella prefazione. In vista del Festival, abbiamo intervistato Giorgio Macellari sui temi che affronta nel libro e sulle ragioni che hanno motivato questa nuova opera.
Scorrendo l’indice di "Etica per il medico giusto" colpisce la vastità e la complessità delle questioni che affronta. Solo per citarne alcuni: 'Qual è il medico ideale? Cos’è la salute?' passando per temi cruciali come l’accanimento terapeutico o l’eutanasia o l’obiezione di coscienza. Da rilevare, inoltre, che si sofferma anche sui diritti e doveri del malato. In sostanza, comunque, il suo è un approccio 'aperto' teso a porre domande più che a dare risposte. Può spiegare perché?
L’approccio che ho seguito nella stesura del testo lo posso condensare in un termine: laico. Laico a indicare un profilo di ricerca per individuare norme morali aconfessionali, il più possibile vincolate al paradigma delle evidenze scientifiche e aperte al confronto multidisciplinare dei saperi. E ovviamente includendovi, su un piano di parità, l’ascolto al sistema di valori e di preferenze che proviene dalla persona malata. Con questo approccio ho cercato di analizzare alcuni temi fondamentali dell’etica medica per offrire pochissime risposte “preconfezionate” e molti “attrezzi etici del mestiere” per potersi districare più agevolmente nella giungla dei dilemmi morali che si palesano al letto del malato. Insomma, un metodo per ragionare, più che un suggerire. Non una serie di strade prefissate, ma una mappa da tracciare caso per caso.
Alla luce della sua esperienza, professionale e umana, pensa che si possa stabilire per legge il confine tra una cura possibile o necessaria e un accanimento inutile?
Una precisazione come premessa: accanimento terapeutico è un ossimoro, un bisticcio di parole incompatibile con l’esercizio di una buona medicina. Il termine accanimento richiama l’attitudine bestiale al furore, nulla a che fare con la terapia. Un medico non può accanirsi: se lo fa non cura, se cura non s’accanisce. L’accanimento evoca sempre una cura sbagliata perché eccessiva, esasperata o futile. L’elemento etico centrale per definire l’accanimento terapeutico, in ogni caso, resta il malato. A pazienti diversi si possono somministrare cure uguali: e queste possono risultare di volta in volta ordinarie o straordinarie, utili o futili, necessarie o dannose, desiderate o temute, routinarie oppure eroiche, aggressive o miti. Ma il criterio etico per decidere se sono l’una o l’altra cosa è la voce di chi soffre, l’unica autorizzata a dire quali sono le cure che vuole accettare e quelle a cui dice di no. È quel “non le voglio” a configurare un accanimento – quale che sia la ragione del rifiuto – se somministrate. Concetti già impliciti nei Codici e nella Costituzione. Insomma, quell’espressione non dovrebbe più trovare spazio nel nostro lessico, se non per condannarla: sul piano linguistico è uno svarione; per la prassi medica è confondente; nella relazione medico-malato alimenta ritorni di paternalismo; nel cittadino evoca timori su conseguenze indesiderate di eventuali malattie.
Il progresso della scienza e della tecnologia apre continuamente nuove possibilità per il/la paziente, cure innovative che non sempre ottengono la guarigione ma che sollecitano aspettative e pongono nuovi problemi a chi soffre e a chi cura. Quali strumenti hanno i medici per gestire situazioni, spesso molto difficili e delicate?
Negli ultimi cinquant’anni la scienza biomedica ha fatto passi giganteschi, alcuni imprevedibili. Con inequivocabili vantaggi sulla nostra salute e in termini di allungamento della vita. Questo però non sempre ne ha migliorato la qualità. Inoltre ha creato aspettative irrealistiche, ad esempio generando l’idea collettiva che le malattie sono errori medici e la morte è un fallimento della medicina. Ma credo che il danno maggiore sia legato a un’ipertecnologia incapace di fermarsi al limite e di spingersi nei luoghi dove il dolore perde significato e diventa un’agonia non voluta. In questo spazio anche i medici possono avere difficoltà nel muoversi. Una possibile soluzione sta nella loro formazione etica, purtroppo ancora oggi trascurata in tutto il corso di laurea. È proprio qui che, a mio avviso, si dovrebbe insistere maggiormente, per ricordare che il regista di una relazione medica eticamente profilata è il paziente. È a lui che spetta il ruolo di giudice ultimo di concetti soggettivi come sofferenza, dignità, senso, qualità di vita e dimensione spirituale del vivere. E ricade sui medici l’obbligo etico di dare considerazione e ascolto al suo giudizio. Il saggio “Etica per il medico giusto” si pone, in quest’ottica, come vademecum per non incorrere in errori capaci di procurare dolore morale ai pazienti e disagi professionali ai medici.
Che significato dà alla parola 'Fraternità' nell’ambito medico?
La parola rimanda a un vincolo, un patto, un’alleanza che è vietato tradire. Trasferita in ambito medico, mi suggerisce però un altro atteggiamento: non giudicare. Cioè, curare indipendentemente da quel che un malato merita, da quanto vale o dal fatto che possa avere la colpa della sua malattia perché ha adottato stili di vita problematici (ad esempio il fumatore con un infarto, o chi si è ferito perché guidava ubriaco). In sostanza, i medici non possono essere prevenuti nei confronti di alcun paziente. Che una persona sia equilibrata o capricciosa, scura o chiara di pelle, francese o turca, empatica, asociale, meritevole o indegna… nulla di tutto ciò può ostacolare il buon articolarsi della relazione di cura. Risultato? Che nei nostri ospedali si verifica qualcosa di straordinario. Che cioè una dottoressa israeliana s’occupi di un palestinese, che un chirurgo omosessuale operi un omofobo, un ateo si prenda cura di un testimone di Geova, un giallo di un nero; e che un ricco, ormai cadavere, doni il suo fegato a un povero a lui perfettamente sconosciuto – e viceversa. Non è un miracolo, succede davvero ogni giorno dove ci sono medici. Perché il nostro è un mestiere che nella relazione con chi soffre non conosce barriere culturali, sociali, etniche, religiose o spirituali. Ecco il mio modo laico d’intendere la fraternità.
Intervista a cura di Tiziana Bartolini
Giorgio Macellari
Etica per il medico giusto Il pensiero scientifico, 2025
Pagg 356, euro 28
Lascia un Commento