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Cinzia Migani e le Storie da Manicomio

Cinzia Migani e le Storie da Manicomio

Pubblicato dalla casa editrice mantovana Negretto Editore un saggio frutto di trent’anni di ricerca: “Memorie di Trasformazione. Storie da Manicomio” di Cinzia Migani. Intervista all'autrice

Venerdi, 19/10/2018 - “[Erano gli anni dell’applicazione della Legge Basaglia.] Ero decisamente attratta dalle storie di superamento istituzionale che venivano trasmesse nella tv di stato, rese pubbliche da psichiatri, sociologi e cittadini impegnati a mettere in evidenza la decadenza di quella cultura che aveva tracciato la linea di confine tra la società dei sani e quella dei folli, fra il normale e il patologico.” ‒ Cinzia Migani

Il primo settembre 2018 è stato pubblicato dalla casa editrice mantovana Negretto Editore un saggio frutto di trent’anni di ricerca di Cinzia Migani: “Memorie di Trasformazione. Storie da Manicomio”.

La pubblicazione è suddivisa in tre sezioni: “Storia del manicomio di Bologna nell’ultimo trentennio dell’Ottocento” che presenta gli studi sopracitati dell’autrice coadiuvata dal professor Ferruccio Giacanelli; “Prime soluzioni al sovraffollamento dei manicomi” che presenta la pazzia ai tempi del positivismo con schede di approfondimento di Cesare Moreno, Maria Augusta Nicoli ed Andrea Parma; “Storie da manicomio” che racconta le vite di tre persone che hanno vissuto fin troppi anni in questi istituti.

L’autrice, Cinzia Migani, si occupa dal 1990 di progett-azione sociale con particolare attenzione alle reti di volontariato contro l’esclusione sociale.
È stata responsabile dell’Area Salute Mentale dell’Istituzione G.F. Minguzzi della Provincia di Bologna dal 1998 al 2000, successivamente e sino al 2009 ha ricoperto la posizione di Responsabile dell’Area Ricerca ed Innovazione Sociale e Responsabile di “Aneka. Servizi per il benessere a scuola”. Dal 2010 collabora con A.S.Vo che gestisce VolaBo, il centro di servizio della città metropolitana di Bologna, in veste prima di coordinatrice e poi di direttora di VolaBo.

Ha curato la pubblicazione di libri sul disagio scolastico e sulla salute mentale per la Carocci Editore e dal 2008 collabora con la Negretto Editore per la quale ha portato a termine lavori come “Follia gentile. Dal manicomio alla salute mentale”, “Il Teatro illimitato. Progetti di Cultura e Salute mentale”, “Dire Fare Donare” ed il progetto di cui parleremo in questa intervista “Memorie di Trasformazione. Storie da Manicomio”.

Buongiorno Cinzia, sono lieta di poter tracciare con te una linea guida di questa nuova pubblicazione edita dalla casa editrice mantovana Negretto Editore. “Memorie di Trasformazione. Storie da Manicomio” è disponibile nelle librerie dal primo settembre. Ha ricevuto una buona accoglienza dai tuoi colleghi?
Contrariamente a quanto pensassi sin dal primo momento in cui è uscita la notizia che stava per essere pubblicato il libro “Memorie di Trasformazione. Storie da Manicomio” ho ricevuto richieste di informazioni: dichiarazione di interesse alla lettura del libro. E dire che eravamo prossimi alle vacanze. Alcune di queste persone fanno parte di gruppi fortemente interessate al tema per motivi di lavoro, altre per motivi civici e per sostenere il diritto alla cura delle persone con sofferenze mentali. Ma diverse sono state anche le dichiarazioni di interesse da parte di persone appartenenti alla mia cerchia di parenti, amici o persone prossime a me per le ragioni più diverse. Tre persone, decisamente diverse una dall’altra, più di altre mi hanno sorpreso positivamente per la passione usata nel dirmi che stavano leggendo con interesse il testo. Sento ancora brividi di emozione ripensando a come mi hanno detto che stavano leggendo il libro, perché i contenuti delle loro riflessioni mi hanno permesso di comprendere che forse era una lettura adatta anche per coloro che non sono esperti del settore. Si tratta di mia nipote che per la prima volta ha dichiarato interesse verso un mio scritto; di un noto psichiatra fortemente impegnato nel qui ed ora, attento a promuovere organizzazioni capaci di agire percorsi di salute individuali e azioni per sviluppare comunità competenti e in salute mentale. Dopo averlo letto, mi ha scritto: “Appena ricevuto, l'ho sorvolato come mi invitavi a fare, ma non ho resistito a perdermi nelle pagine, dense di storia e di storie. Cosa ancora più preziosa per chi come me crede non sia possibile alcuna innovazione, alcun progresso, senza una profonda conoscenza delle traiettorie individuali e collettive che ci hanno condotto al momento attuale.” Ed infine, di una esperta di sviluppo di reti sociali così esperta da poter essere identificata, nonostante la giovane età, con l’archetipo della rete. Con lei condivido alcuni percorsi di lavoro nel volontariato. Mi ha scritto che aveva letto il libro in vacanza e che il libro l’aveva emozionata e arricchita tantissimo.

Com’è nato il tuo interesse per il Manicomio di Bologna?
Il mio interesse per le istituzioni totali nasce negli anni del liceo. Gli anni successivi all’applicazione della legge 13 maggio 1978, n. 180, in tema di "Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. La cosiddetta Legge Basaglia. Ero decisamente attratta dalle storie di superamento istituzionale che venivano trasmesse nella tv di stato, rese pubbliche da psichiatri, sociologi e cittadini impegnati a mettere in evidenza la decadenza di quella cultura che aveva tracciato la linea di confine tra la società dei sani e quella dei folli, fra il normale e il patologico. Ma erano anche gli anni in cui alcuni famigliari denunciavano che erano stati abbandonati con i loro cari dimessi di forza dai manicomi o che non sapevano a chi chiedere aiuto quando un proprio caro stava male. Troppe cose che stavano accadendo accanto a me continuavano a risuonarmi. Diverse le domande senza risposta o gli interrogativi alimentati sia da chi era a favore sia da chi metteva in discussione la riforma. Chi aveva ragione? C’era una ragione più ragionevole delle altre?
Una tarda serata di un mese invernale del 1980 stavo guardando in televisione un servizio di Sergio Zavoli. Ero incollata. Denunciava con vigore il confine assurdo che si era instaurato fra la città dei cosiddetti sani e quella dei malati di mente. Ricordo ancora mia madre che si alzò dal letto e mi intimò di andare a letto perché il giorno dopo dovevo andare a scuola. Aggiunse che quello che stavo vedendo in televisione avrebbe popolato di incubi il mio sonno. Non l’ascoltai e a quel punto lei scelse di rimanere vicino a me. Alcune esperienze di sofferenza raccontate dalle persone intervistate le sembravano rimarcare la distanza fra chi sta bene e chi sta male. Non sapeva o non voleva sapere che alcune testimonianze non erano così lontane da alcune sue esperienze di vita: lei aveva provato sulla pelle cosa significasse passare da espansioni vitali a fatica di vivere.
Non le dissi che non erano le immagini a turbarmi, ma le ragioni per le quali le persone finivano lì. Compresi in quel momento perché si evitava di approfondire l’argomento quando qualcuno diceva che il proprio familiare “era stato ricoverato a Imola”. All’indomani andai a scuola e iniziai a fare una serie di domande alla mia professoressa di filosofia, la professoressa Isa Valbonesi. Mi consigliò di leggere un libro che ancora conservo: “Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane” a cura di Aldo Gargani del 1979. La mia ricerca è continuata anche all’università. Diversi gli esami messi in programma per approfondire le tematiche del rapporto esistente fra normale e patologico, fra gli scritti più frequentati quelli di Husserl, Bergson, Minkowski e Merleau-Ponty. L’epilogo di quella fase e l’inizio di un modo altro di affrontare la questione avvenne qualche mese dopo l’ottenimento della laurea in filosofia. Grazie a un suggerimento di un compagno di corso seppi che a Bologna esisteva il Centro di studio e di documentazione della storia della psichiatria e della emarginazione sociale, oggi Istituzione G. F. Minguzzi della Città metropolitana di Bologna. Il Centro era locato all’interno delle mura manicomiali e in quegli anni aveva posto fra i temi centrali da indagare la storia dell’istituto manicomiale di Bologna. Ed è così che è nato il mio rapporto con Giacanelli, con gli archivi manicomiali, con gli altri studiosi del Centro (in particolare Augusta Nicoli e Santa Iachini), le persone che vivevano ancora dentro l’ospedale psichiatrico e i loro amici e familiari. Ci capitava spesso di condividere con loro i luoghi di ristoro: il bar e la mensa dell’ospedale psichiatrico. Luoghi la cui convivenza era semplificata da persone come Adelfina, che facevano ponte fra noi del Centro, gli infermieri e i pazienti. Passavo ore a leggere e schedare documenti di archivio, o a discutere con Giacanelli e Iachini su come articolare la ricostruzione storica del manicomio di Bologna e delle persone che vivevano dentro, e alla cultura scientifica del tempo.

Il 13 maggio 2018 c’è stato il quarantennale della Legge Basaglia che ha decretato la chiusura dei manicomi. Qual è, dunque, l’intento di “Memorie di Trasformazione”? Oltre all‘aver pubblicato un eccellente saggio che documenta la nascita dei manicomi sino alla loro chiusura, quale messaggio hai veicolato nel libro?
Grazie per la sua gradita valutazione, da tempo ho imparato ad apprezzare i suoi interventi seguendo la pagina web di Oubliette Magazine. Il messaggio principale che ho voluto veicolare ripartendo da ricerche del passato sul passato della storia manicomiale ricostruito con Ferruccio Giacanelli è stato quello di richiamare l’attenzione su un mondo in trasformazione che rischia di intraprendere derive pericolose, quelle che portano a dividere le persone creando barriere culturali e a costruire muri di separazione.

Nella prima sezione del libro, “Storia del manicomio di Bologna nell’ultimo trentennio dell’Ottocento”, ed esattamente nel quinto capitolo “La cultura psichiatrica all’interno del manicomio” tracci alcune citazioni d Francesco Roncati. Troviamo tratto da “Ragioni e modi di costruzione ed ordinamento del Manicomio di Bologna” del 1891: “[…] un Manicomio bene costruito ed ordinato forma già per sé uno strumento massimo di cura della pazzia.”.
Era opinione diffusa nella seconda metà dell’800 che chi soffrisse di disagio mentale potesse trovare riparo nel manicomio, un luogo caratterizzato dallo svolgersi di una vita ordinata, da una alimentazione curata e separata dal mondo, dalle persone e dalle loro contraddizioni. Roncati interpretava con vigore quella credenza. Lui stesso scelse di rinchiudersi in manicomio, visto che passò la vita fra quelle mura. Di robusta formazione igienista, attento alle condizioni ambientali in cui viveva la maggior parte della popolazione era fortemente convinto che il ricovero in manicomio rappresentasse la soluzione più adeguata per chi perdeva la ragione. Credeva infatti che a causare molte forme di pazzia fossero la malnutrizione e le pessime condizioni igieniche in cui erano costretti a vivere le persone. Questa credenza, che trovava riscontro negli ambienti accademici e amministrativi dedicati alla questione igienica in città, lo portò ad investire tutte le sue risorse e competenze sulla tecnica manicomiale e sulla gestione degli spazi e delle risorse umane che lo popolavano, anticipando così l’odierna deriva aziendalistica. Passò ore a studiare come garantire ordine e igiene, a ideare stratagemmi per occultare lo sguardo delle persone cosiddette “sane” da quelle dei malati e viceversa, a studiare diete alimentari, a imporre regole per impedire al malato di scappare o di disturbare la quiete. Passò ore in buona sostanza a occuparsi del corpo del malato, dimenticandosi di occuparsi della sua “testa”.

Vorrei riprendere una tua accattivante domanda per riuscire ad aver una spiegazione sul pericolo che si correva in Italia ed in Europa in quel periodo. “Quale virus contagiò la popolazione italiana in quegli anni, visto che mano a mano che passavano i giorni le persone sembravano essere sempre più insane di mente?”

L’unico vero pericolo che corse in quegli anni la popolazione italiana fu quello di soccombere alle disuguaglianze economiche, all’esigenza di mantenere l’ordine sociale e alla volontà di potere degli specialisti.

Cesare Moreno, Maria Augusta Nicoli ed Andrea Parma partecipano nella seconda sezione del saggio, “Prime soluzioni al sovraffollamento dei manicomi”, con schede di approfondimento dei temi trattati. Quand’è nata la tua collaborazione con loro?
L’incontro è avvenuto in contesti diversi e per ragioni diverse. Cesare Moreno è parte di una fase molto importante della mia vita professionale: quella centrata in cui mi sono occupata con intensità di benessere a scuola con Valentina Vivoli, che ha curato la postfazione del libro. Un periodo che trova la sua origine a seguito di un episodio complesso registratosi in un famoso liceo classico di Bologna, un episodio descritto nel libro Dal disagio scolastico alla promozione del benessere pubblicato nel 2005. Cesare ci permise di cogliere il valore dell’esperienza pedagogica che punta sul protagonismo dei ragazzi valorizzando le risorse della comunità o costruendo le condizioni perché gemmino possibilità di contesto là dove ci sono solo fatiche, deprivazioni e risorse. Ci fece toccare con mano come molti ragazzi avevano deviato il proprio percorso di vita destinato al fallimento, attraverso il sostegno di “maestri di strada”, “volontari” e in senso lato tutti coloro che volevano investire sull’attivazione di percorsi di resilienza ed empowerment sociale.
Con Augusta ho condiviso anni intensissimi fra il 1990 e il 2001. Insieme a Gino Pellegrini (scenografo e pittore) e la sua compagna e preziosa collaboratrice Osvalda Clorari, a tecnici della salute mentale, uomini e donne di cultura e istituzioni abbiamo ideato il Progetto Vita da Pazzi. Mostre film e dibattiti sulla salute mentale per contrastare il pregiudizio delle persone che ancora aleggiava su chi soffriva di disagio mentale, per avvicinare le persone alle tematiche della salute mentale e ai servizi, per avvicinare il mondo del volontariato e civile ai servizi e alle associazioni di familiari o per favorire lo sviluppo dei gruppi di auto-aiuto. E lei che mi ha portato a interessarmi di psicologia di comunità e che mi consentito di arricchire la mia cassetta degli attrezzi per occuparmi di sociale.
L’incontro con Andrea Parma è avvenuto all’interno del progetto Teatro e Salute mentale promosso dall’Istituzione G. F. Minguzzi della Città metropolitana di Bologna e la richiesta di un contributo è stata casuale. Parlando del testo che stavo scrivendo mi ha detto che era interessato alla storia dei luoghi manicomiali e che stava facendo una ricerca su un manicomio delle Marche. Mi è sembrato un segno del destino per mantenere viva la fiammella che anima la memoria attiva sulle ragioni per le quali si è lottato a favore della chiusura dei manicomi e per non dimenticare che le derive sono sempre possibili.

Nella terza sezione del saggio, “Storie da Manicomio”, hai scelto di parlare di tre persone che hanno vissuto in manicomio: Filippo Manservisi, Gaetano Emiliani ed il piccolo Umberto Rossi. Perché proprio loro tre? E quanti nomi hai visto sparire dagli archivi?

Le tre testimonianze le ho scelte per la specificità della loro storia e per i sentimenti e le emozioni che mi avevano attivato quando le ho rinvenute in archivio. La storia di Filippo l’avevo incrociata ai tempi della realizzazione di una dell’edizione della mostra Vita da Pazzi e discusso con Gino e Osvalda che hanno curato la scenografia e l’allestimento di tutte le mostre Vita da Pazzi. Il materiale rinvenuto nell’archivio sanitario del Manicomio di Imola non era adatto per una esposizione scenografica. Continuai a cercare materiale. Ne ho rintracciato così tanto negli archivi storici di Bologna che oggi si potrebbe pensare una sezione espositiva solo per la sua storia. Ho ripreso in mano la sua storia alcuni anni fa in concomitanza con la denuncia degli scandali bancari e la lettura del testo di Marco Revelli, “Non ti riconosco”. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia, che mette in evidenza gli scempi ambientali e sociali compiuti in nome dello sviluppo. E ho capito che era ora di raccontarla.
La storia di Gaetano mi ha accompagnato dal primo momento che ho iniziato a occuparmi della storia del complesso manicomiale di Imola. L’ho rinvenuta in archivio agli inizi degli anni ’90. In quegli anni era vivacissimo il movimento di famigliari, volontari e cittadini a favore del superamento manicomiale. Cittadini, come Marta Manuelli, avevano scelto di rappresentare le istanze delle persone che erano state rinchiuse in manicomio per decenni che cercavano di riappropriarsi della propria vita con il sostegno del servizio ma non avevano nessun parente pronto a farsi carico di loro. Marta si fece parte in causa nell’apertura dell’Associazione Cà del Vento, una casa che è stata aperta per accogliere le persone dimesse dal Manicomi. Sono proprio loro, i residenti, che decidevano ieri come oggi come gestire la casa, cosa mangiare, come gestire il tempo. Differentemente dalle sorti dei residenti di Cà del Vento, Gaetano era possidente e aveva famiglia. Ma né la sua famiglia né i medici né le associazioni di famigliari o di volontariato coltivarono il sogno di ridargli la libertà. Ed ha passato così più di 40 anni in manicomio. Fa male vedere che prevalgono le annotazioni amministrative su quelle sanitarie nel suo fascicolo sanitario.
Ed infine la storia di Umberto, il bambino figlio della povertà. Questa storia è fortemente impressa nella mia mente e guida ancora oggi il pensiero che anima alcune mie azioni a supporto di progetti di contrasto contro l’esclusione sociale.
Ho scelto queste tre storie fra le tante incontrate, esaminando a tappeto tutti i documenti di archivio presenti nel titolo 7/4 dell’Archivio della provincia di Bologna e la corrispondenza della Direzione e dei Pazienti del Manicomio di Bologna dal 1860 al 1907 nonché i documenti sanitari dei due manicomi di Imola e le perizie cliniche. Alcune storie le ho seguite negli anni, come quella di Luigi Veronesi. Il suo caso è descritto in Storia da un manicomio. Vita e vicende di un birocciaio bolognese del XIX secolo, saggio scritto con Di Diodoro, Ferrari, Giacanelli e Iachini del 1997. La sua storia, caratterizzata da 35 ricoveri in manicomio, susseguitasi tra il 1857 e il 1890, è particolarmente interessante. Permette di seguire il periodo durante il quale si susseguiranno importanti avvenimenti che porteranno alla nascita della psichiatria bolognese ma anche il diverso comportamento degli amministratori dell’epoca verso un “alcolista” con tendenze anarchiche. A seconda del periodo gli effetti delle sue bevute saranno contenute in manicomio o in galera.

Hai in programma presentazioni per “Memorie di Trasformazione”?
Recentemente, il 2 ottobre, ho presentato il libro presso la Biblioteca comunale di Imola. Una scelta di cuore. Non poteva che iniziare a Imola il ciclo della presentazione del libro. Il luogo dove ho fatto la mia prima relazione pubblica sui temi di storia delle istituzioni manicomiali, nel 1992. Ma anche il luogo che ha scelto di aprire con la presentazione del libro la manifestazione di Oltre la siepe - La salute mentale è un diritto di tutti: anche il tuo! Una manifestazione fatta e voluta da cittadini, volontari, associazioni di familiari e utenti e operatori della salute e della cultura. Agli inizi di novembre il libro sarà presentato a Bologna, e il 21 dicembre a Taranto.

Come ti trovi con la casa editrice Negretto Editore? La consiglieresti?
Cinzia Migani: Sì, la mia opinione non è mutata da quanto dissi che consiglio questa casa editrice in occasione dell’intervista che le ho rilasciato in occasione della recente pubblicazione “Dire Fare Donare. La cultura del dono nelle comunità in trasformazione”.

Salutiamoci con una citazione…
L'importante è che abbiamo dimostrato che l'impossibile può diventare possibile. Dieci, quindici, venti anni addietro era impensabile che il manicomio potesse essere distrutto. D'altronde, potrà accadere che i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi ancora di prima, io non lo so! Ma, in tutti i modi, abbiamo dimostrato che si può assistere il folle in altra maniera, e questa testimonianza è fondamentale. Non credo che essere riusciti a condurre una azione come la nostra sia una vittoria definitiva. L'importante è un'altra cosa, è sapere ciò che si può fare. È quello che ho già detto mille volte: noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere. È il potere che vince sempre; noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare.” ‒ Franco Basaglia in Conferenze brasiliane, 1979

Cinzia ti ringrazio vivamente per il tempo che hai dedicato a questa nostra intervista. In chiusura invito i lettori a prendere in mano “Memorie di Trasformazione” perché ritengo sia non solo un saggio utile agli addetti ai lavori ma anche a coloro che promuovono un’azione sociale per il rispetto dei diritti dell’essere umano. Saluto con le parole del filosofo francese Montesquieu (La Brède, 18 gennaio 1689 – Parigi, 10 febbraio 1755): “Si chiudono alcuni matti in una casa di salute, per dare a credere che quelli che stanno fuori sono savi” e con una possibile risposta dello psichiatra Franco Basaglia (Venezia, 11 marzo 1924 – Venezia, 29 agosto 1980): “Un malato di mente entra nel manicomio come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’. Il malato, prima di tutto, è una ‘persona’ e come tale deve essere considerata e curata […] Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone”.

Written by Alessia Mocci
Ufficio Stampa Negretto Editore

Info
Sito Negretto Editore
http://www.negrettoeditore.it/
Acquista “Memorie di trasformazione”
https://www.libreriauniversitaria.it/memorie-trasformazione-storie-manicomio-migani/libro/9788895967349
Comunicato Stampa “Memorie di Trasformazione”
http://oubliettemagazine.com/2018/09/10/in-libreria-memorie-di-trasformazione-storie-da-manicomio-di-cinzia-migani-edito-da-negretto-editore/
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http://www.odorisuonicolori.it/

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