Venerdi, 26/08/2022 - Rahma Nur è tante cose. Nata a Mogadiscio, naturalizzata italiana, ha recentemente pubblicato la raccolta di poesie «Il grido e il sussurro», edita da Capovolte ed inserita nella collana LaPoRa (acronimo di «latitudini, poesia, raccontarsi»). Rahma porta con estrema consapevolezza e con militante determinazione diverse condizioni, poiché è donna, nera, dis-abile, insegnante, madre - l'elenco potrebbe continuare.
L'abbiamo intervistata perché le sue poesie bisbigliano e urlano l'amore per il prossimo e la feroce disperazione dell'ingiustizia o della discriminazione. Pubblichiamo alcuni stralci del lungo scambio intercorso, ormai persuase che così forti e deflagranti passioni umane (l'amore filantropico e l’orrore per l’oppressione) non possano che oscillare tra il tono sommesso del mormorio e il grido che squarcia la gola.
Rahma, la prima domanda che ti faccio riguarda la tripartizione della raccolta: «sussurrare, gridare, curare». Si tratta di una tripartizione che aggiunge qualcosa al titolo della raccolta, un orizzonte terapeutico. Cosa vuol dire per te questo?
È vero quello che dici. Molte delle mie poesie sono nate per gridare contro fatti orribili che pure accadevano nel mondo. Altre poesie venivano dall'intimismo, dal mio profondo e personale orizzonte. Neanche per un poeta è sempre facile esternare e condividere parti tanto interne. Le ultime mie poesie sono sfociate invece in una cura che può essere anche autoterapeutica. L'ultima sezione risponde quindi al desiderio di curare se stessi e gli altri, alleviando le pesantezze che possono scaturire dalla gravità di alcuni testi, ritrovando una nuova leggerezza.
La tua raccolta è un volumetto da cui emerge una autrice quantomeno trilingue. Come è per te coniugare tutte queste identità linguistiche?
La lingua somala è per me un elemento della nostalgia di cui tratto. Ho perso molto del somalo che parlavo e capivo. Ho avuto l'opportunità di riparlarlo dopo lo scoppio della guerra civile. La diaspora che ne è seguita mi ha permesso, se così posso dire, di ritrovare alcune persone della mia terra d'origine, di parlare e scambiare con loro. Nel corso degli anni, poi, la mia famiglia è andata via. Mia madre fa a tutt'oggi avanti e indietro. L'italiano è attualmente la mia lingua, madre e matrigna allo stesso tempo. A volte mi pare di essere quasi obbligata ad usare delle parole che non sento mie. Dall'italiano non mi sento sempre riconosciuta: quando certe persone si stupiscono di quanto parli bene l'italiano, ad esempio, precipito in una dimensione emotiva di delegittimazione della mia lingua. Mi chiedo il perché di questo stupore e non posso che toccare con mano l’ennesimo pregiudizio.
Il tuo libro ha forse anzitutto lo scopo di denunciare la discriminazione. La tua poesia è soprattutto una poesia che scende in piazza ed interviene. Qual è la tua ‘urgenza politica'?
Sento fortemente il bisogno di mettere a servizio degli altri la mia esperienza di vita e le riflessioni che ho maturato. In questi ultimi anni, forse anche a causa della pandemia, nei social è come esploso questo attivismo, per fortuna. Le persone che vivono forme di discriminazione e di oppressione hanno giustamente levato il capo e fatto in modo di portare delle testimonianze per contribuire alla consapevolezza collettiva. Nel vedere che le mie poesie venivano condivise e commentate, ho pensato che pubblicare le mie liriche sarebbe stato un buon modo di partecipare. Sono una donna nera, dis-abile, insegnante. Vorrei in questo modo far capire anche in ambito lavorativo cosa succede e quale può essere il contesto di una persona come me. Nelle mie poesie c'è sempre, tra le altre cose, un'istanza pedagogica.
È vero, la tua poesia è anche chiara, piana, non tende all'oscurità, si fa sempre comprensibile e divulgabile. Sembra quasi una poesia diretta e parlata, da cui si può apprendere. . .
Mi piace che nella mia poesia si possa trovare e riconoscere non solo chi, come me, ha un vissuto particolare, fatto di «nerezza», come scrivo nel titolo di una lirica. È una poesia per tutti e per tutte. Come deve essere, a mio avviso, la poesia autentica.
Nelle tue poesie ci sono immagini prese in prestito dalla natura; correlativi oggettivi di condizioni esistenziali che si configurano come elementi floreali. Ma ci sono anche immagini ordinarie e quotidiane. Che ruolo hanno questi elementi nella tua poetica?
Diciamo che la mia poesia nasce da momenti, attimi rivelatori. Ciò che mi colpisce e mi incanta mi obbliga a trascrivere parole e pensieri su un taccuino che tengo sempre con me. Non ci sono oggetti o dimensioni privilegiate: che sia una farfalla o una notizia di cronaca, un tulipano o un'esperienza, ciò che tocca profondamente la mia interiorità si fa poesia.
C'è una poesia in cui tratti dell'invisibilità o dell'eccesso di visibilità. Senti a volte di non essere percepita e altre volte di dare troppo nell'occhio. Come mai?
La poesia «Mi vedi?» è strettamente legata alla mia dis-abilità. C'è chi finge di non vedermi sui mezzi pubblici pur di non dovermi cedere il posto, di cui avrei diritto. Ovviamente questo va di pari passo con il fatto di essere sempre un pugno in un occhio. Tutti si focalizzano ampiamente sulla dissonanza della dis-abilità. Vivo una diversità spesso strumentalizzata ed esisto nelle crepe e nelle ambivalenze emotive delle persone, che oscillano dalla compiacenza all'adulazione, dal disagio al profondo dolore, fino alla rara compassione. Forse la nostra sofferenza nasce sempre dalla dis-umanizzazione della diversità. Quando rinunciamo ad abitare lo spazio emotivo dell'altro, feriamo l'altro e sminuiamo tutto ciò che questi è.
Prendo coraggio e parlo in ultimo della tua poesia, molto audace, «Taglio». Puoi parlarci di questa lirica?
Dolorosa poesia. È una denuncia della pratica della mutilazione dei genitali femminili, un tema difficile. Le statistiche sono allarmanti. In Somalia c'è un grande dibattito sulla mutilazione genitale; le donne sono diventate poco a poco sempre più consapevoli degli errori commessi di generazione in generazione. Il patriarcato è stato visto, man mano, come una forma di dominazione oppressiva (cosa che è vera anche nel mondo occidentale). Pretendere di possedere in tutto e per tutto il corpo di una donna, disporne per stabilire la necessità di un aborto o di un taglio, è qualcosa che annichilisce la donna. Le donne somale stanno capendo che si tratta di usi tribali che procurano sofferenza, dolore. La mutilazione genitale è un martirio. In Kenya e in Somalia posso dire che il confronto si sta accendendo. È ancora difficile far passare un messaggio evoluto nelle campagne e nei luoghi non urbanizzati. In questi ambienti persiste la credenza che il corpo femminile nasca 'impuro' e 'imperfetto' e vada perciò corretto, sistemato, perfezionato. L'idea è questa, ma la realtà è ovviamente un'altra. Sono contenta che, ad oggi, è possibile almeno chiurugicamente ridurre disagi e dolori nelle donne che di questo terribile taglio hanno purtroppo fatto esperienza. È un taglio che dà problemi nel parto e nella minzione, per non parlare dell'intimità. Mi solleva che almeno una buona parte di questi disagi possa essere, se non altro, ridotta.
Lascia un Commento