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Intervento in occasione dell'incontro 'Il permesso del mondo'

Intervento in occasione dell'incontro 'Il permesso del mondo'

Alcune riflessioni intorno a questioni cruciali di fronte alle quali si trova il femminismo oggi...

Lunedi, 24/02/2025 -

Il permesso del mondo (Roma, cinema Farnese, 22-23 febbraio 2025)
Ho partecipato, su invito delle promotrici Alessandra Bocchetti e Franca Chiaromonte, al convegno “Il permesso del mondo” preceduto da alcuni appelli che pongono questioni cruciali di fronte alle quali si trova il femminismo oggi. L’incontro è stato ricco di presenze, di riflessioni e proposte, animato da più di cento donne provenienti da tutto il paese, comprese alcune giovani che hanno posto l’accento su nuovi e inquietanti scenari. Spero che questa ricchezza venga resa in qualche modo condivisa. Sollecitata da alcune compagne presenti, pubblico su Noi Donne il testo che ho letto durante il mio intervento, uno dei primi la mattina del 22 e per questo purtroppo senza riferimenti al dibattito.

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Ringrazio innanzitutto Alessandra e Franca per aver reso possibile questo spazio di confronto e per avermi invitata.

Ho letto con attenzione gli appelli e…. in verità mi sono ritrovata in una posizione un po’ sghemba, come se non fosse rivolto anche a me l’invito a partecipare.

La prima richiesta che fate è quella di “tornare alle origini del femminismo” e mi è sembrato un ottimo suggerimento, ma proseguendo nella lettura ho visto che fate esplicito riferimento solo agli anni ‘70 e ‘80, dunque al vostro femminismo. Allora, mi sono detta, forse io non c’entro. Eppure sono qui oggi con voi, sollecitata dai vostri testi.

Tornare alle origini del femminismo per me significa tornare innanzitutto a quel prefemminismo che ha contrassegnato la mia adolescenza e giovinezza quando il messaggio evangelico mi diceva che eravamo tutti, uomini e donne, figli/e di Dio, uguali in dignità, e tale mi sentivo camminando per la strada dove invece incontravo molestie e divieti. Dal disagio muto, da quel sentirmi anormale, inadeguata, è nata la mia scelta di stare tra donne in uno spazio separato che mi si è aperto quasi per caso quando avevo circa trenta anni e due figli maschi piccolissimi ai quali tentavo di consegnare il valore etico della cura assecondando la loro richiesta di bambole e lavatrici nel tentativo di allontanarli il più possibile da una eredità virilista e guerriera. Era il 1974 quando ho incontrato l’Unione donne Italiane. Non conoscevo il femminismo, né avevo mai sentito parlare dell’Udi, ma qualcosa di cambiato c’era da tempo nell’aria che respiravo, se è vero che avevo potuto studiare, anche all’Accademia di Belle Arti, a lungo preclusa alle donne, avevo potuto votare e lavorare fuori casa nonostante il matrimonio e la nascita di figli. Non sapevo di dover ringraziare qualcuna per queste opportunità che mi stavano allontanando dal destino della generazione di mia madre e delle mie nonne.

Ho iniziato a riflettere e lottare in quei primi anni settanta in un luogo dove risultavano evidenti e inaccettabili gli effetti più visibili del patriarcato (leggi e consuetudini discriminatorie). L’obiettivo dell’emancipazione era inteso e vissuto come processo collettivo e non solitaria arrampicata sociale e… politica. Ricordo che era forte il desiderio di cambiare il mondo cambiando noi stesse, le nostre vite: altro che omologazione al maschile.

Nell’Udi ho scoperto che ero dentro una storia venuta prima di me che aveva radici femminili lontane, almeno fin dal ‘700. Recuperare queste radici, nel tentativo di accorciare la distanza tra storia dell’umanità e storiografia, è tra le operazioni più lunghe, emozionanti e generative della mia storia politica. Per questo quando parlando di voi scrivete “La nostra libertà è un attacco feroce a quei principi che per secoli hanno ordinato il mondo” è stato automatico per me pensare intensamente anche alle tante che hanno sferrato questo stesso attacco negli ultimi due secoli, figure prestigiose che voi conoscete bene. Cito solo Delfina Piantadine, una sconosciuta, che parlava alla figlia, la grande Anna Maria Mozzoni, di due Risorgimenti uniti tra loro: quello per la liberazione dal dominio straniero e l’altro per la liberazione “dal comune pregiudizio che alla donna interdice il libero pensiero”. Lei, consapevole della necessità di un doppio binario nella lotta delle donne verso la libertà, è tra quelle che ha lucidamente mostrato a noi la strada maestra.

Ho pensato anche alle donne dell’Udi venute prima di me che con il loro fecondo pragmatismo hanno nominato il desiderio di dignità e libertà, lottato per i diritti di tutte in nome di una uguaglianza che intendeva sconfessare la presunta superiorità maschile. Ho così scoperto passaggi significativi e in gran parte sconosciuti. Ad esempio,se queste donne provenienti dalla Resistenza nell’ottobre del 1944, appena dopo la Liberazione di Roma, non si fossero intestardite a volere da subito il diritto di voto promuovendo un apposito Comitato, noi non avremmo votato nel ‘46 e avremmo avuto una Costituzione molto più sessista e misogina. Per quello che in quei tempi era possibile, sia pure con errori, dipendenze, ambivalenze, hanno contribuito tra mille difficoltà a costruire a loro misura la democrazia nel nostro paese per una inedita e ancora incompiuta cittadinanza femminile.

L’Udi è stato anche il luogo che fin dai primi anni ha reso possibile a me e a tante come me l’incontro con il neofemminismo. Io sono il risultato di questo difficile incontro/scontro fino a riconoscerci, intrecciando parole e gesti, luoghi e lotte,andando alle radici più nascoste del dominio maschile, anche quelle annidate nelle pieghe oscure delle nostre coscienze.

Ho un debito grande nei confronti delle donne venute prima di me e di quelle dell’Udi con le quali ho lottato e sono cresciuta; ho un debito egualmente grande, e più volte espresso, nei confronti del femminismo dell’autocoscienza che tanto mi ha dato in termini di radicalità di sguardo e di pensiero. La mia gratitudine va però anche alle ragazze delle ultime generazioni con cui fino a qualche anno fa ho intrecciato il mio percorso, dalla costituzione della rete ‘Io decido’ a ‘Non Una di Meno’,praticando, non senza difficoltà, un femminismo orizzontale, intersezionale e transnazionale.

Oggi che non posso più partecipare come un tempo, porto dentro di me una genealogia ricca, parlante, che mi dà la misura della ostinata resistenza degli uomini alla loro libertà e rappresenta una bussola per orientarmi nel tempo che mi resta.

Mi aiuta a guardarmi. Chi sono io? Soggetto segnato da caratteristiche legate a sesso, classe sociale, razza, con corpo-mente-sentimenti non sempre in armonia,io e il mio desiderio di autenticità, di libertà e verità, sempre a interrogarmi, aprirmi al dubbio, intrecciare più luoghi, linguaggi, saperi? Non posso essere chiusa in un recinto identitario costruito solo per differenza, non mi aiuterebbe a capire, a comprendermi. Resto una femminista dell’Udi, posizionata cioè nello spazio di tensione tra uguaglianza e differenza. Se l’emancipazione in nome dell’uguaglianza porta in sé il rischio di omologazione al maschile, un femminismo basato sulla differenza come unica categoria identitaria porta in sé il rischio di un fondamentalismo escludente.

Il femminismo per me, soggetto coscientemente intersezionale,tende ad essere di conseguenza pensiero e pratica intersezionale,ma è innanzitutto una uscita definitiva dall’impianto binario contrappositivo e gerarchico del pensiero patriarcale, del suo modo di conosceree rapportarsi al mondo, un impianto cognitivo, distorsivo e fortemente normativo.

Voi domandate Il femminismo serve a far stare meglio le donne o a cambiare il mondo? Rispondo:entrambe le cose. È l’umanità tutta che deve uscire dall’ordine patriarcale per una nuova inedita civiltà umana. Non penso a un matriarcato che non è mai esistito, piuttosto a una gilania (Marja Gimbutas) o ginecocrazia (Francoise d’Eaubonne), cioè una cultura e una struttura sociale dove il primato della madre nella procreazione venga riconosciuto senza per questo oscurare l’apporto maschile, e dove l’esperienza del materno, libera dalla confusione tra amore e possesso e al di fuori delle logiche del dominio (che ci sono) diventi fondamento di un nuovo ordine del mondo attraverso innanzitutto l’affermazione dell’etica della cura come valore universale, la cura del vivente in ogni sua forma, responsabilità di tutte e tutti.

Sono consapevole che la mia/nostra fragilità, l’imperfezione come condizione umana giocano un ruolo che porta a spostamenti, approssimazioni nel duro braccio di ferro con la vita. Il femminismo dovrebbe essere perciò plurale nel senso di avere varie declinazioni e approcci,aperto a soggetti attraversati da molte differenze e urgenze, ma collocati tutti all’internodi un assetto sociale e simbolico semipatriarcale.

Venivamo da un patriarcato quasi assoluto ma siamo riuscite a ridimensionarlo, siamo state forti è vero e lo siamo state perché abbiamo lottato e agito insieme in tante, nonostante le differenze. Non abbiamo ancora finito e non possiamo lasciare il lavoro a metà.

In passato abbiamo affermato con forza che la pace è incompatibile con il sistema di dominio maschile mettendo in lucei nessi tra guerra e patriarcato, nessi drammaticamente visibili oggi. Perché nei discorsi e nelle analisi sulle guerre in corso questa radice tenace non viene mai nominata, non è diventata senso comune? Perché come voi dite “noi non siamo nel discorso”?

Dobbiamo riconoscere che la pratica di relazione tra donne, che è stata per molte di noi una forma alta di educazione all’alterità ponendoci all’interno di un ordine simbolico fondato almeno sul due, sul molteplice,dove le differenze sanno dispiegare la forza positiva del conflitto, proprio la relazione tra donne ha prodotto nel femminismo una frammentazione spesso delegittimante e oppositiva, intrappolata nella logica amico-nemico.

La realtà invece impone la necessità di un femminismo intergenerazionale, policentrico e interrelato, dialogante col mondo,che tenga insieme un lavoro politico sul sé di ciascuna attraverso nuove forme di autocoscienza, e una capacità di lettura e di contrasto a questa nostra contemporaneità sempre più confusa e ostile.

C’è ancora bisogno di femminismo, della nostra intelligenza empatica, dei nostri saperi,dei nostri corpi di nuovo insieme nello spazio pubblico,oggi che il modello consumistico continua a sottrarci soggettività, che la tecnologia, nuova subdola forma di potere solo apparentemente neutra,tende a mettere ai margini la parte più preziosa del nostro essere umani. Oggi che il fratriarcato, che voi giustamente definite “patriarcato dei fratelli” ha generato nuovi padri/padroni vistosamente sessisti, vergognosamente infantili e irresponsabili, eppure con la pretesa di governare,di dominare il mondo, le nostre vite e… anche le nostre coscienze.


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