Sabato, 17/04/2021 - Non avevo in programma di comprarlo, ma poi, spostando lo sguardo da un libro all’altro di quelli esposti in libreria, mi è caduto l’occhio sulla frase riportata sulla fascetta di copertina: “Mi hanno insegnato che chi ha un minimo di libertà deve liberare le altre. La mia arma sono le parole.”
E allora non ho potuto non comprarlo.
Le parole sono l’arma di chi scrive, e per una scrittrice l’unica speranza di imprimere un piccolo segno e magari un piccolo cambiamento nel mondo sta nel trovare le parole giuste. E Rula Jebreal, col suo nuovo libro “Il cambiamento che meritiamo” (Longanesi), ha scelto le parole: “Attraverso quello che scrivo e quello che dico ho scelto di schierarmi, di denunciare. Ho scelto di usare la mia voce per darla a chi non l’ha mai avuta.”
A proposito di parole, mi colpisce la scelta del titolo: non il cambiamento che vogliamo o per cui lottiamo, ma il cambiamento che meritiamo. Ci è dovuto, non si tratta di una generosa concessione.
Rula Jebreal – giornalista, scrittrice e docente universitaria - racconta di aver cercato per tanto tempo le parole giuste per raccontare di sua madre, Nadia, della violenza che subì quando era ancora una bambina, della sua vita e della sua morte: una morte scelta per l’incapacità di vivere in un mondo che protegge i violenti e giudica le vittime. Quando Nadia seppe che la sua prima figlia, Rula, era una femmina ebbe paura: aveva messo al mondo un’altra vittima. Ma Rula non ci sta ad essere una vittima, e grazie alla lungimiranza di un padre femminista che affidò lei e sua sorella a Hind al-Husseini fondatrice dell’istituto di Dar Al-Tifel, Rula imparò che il primo passo verso l’emancipazione è l’istruzione e che quello verso l’indipendenza è il lavoro.
Ed è così che Rula è diventata la donna che è oggi, una donna che alza la voce, che contesta la violenza e la discriminazione che continua ad esistere nei confronti delle donne, con lo sguardo proiettato al domani, sperando in un futuro più libero e agendo per costruirlo.
Perché se Kamala Harris – afro-indo-americana, figlia di immigrati – è arrivata a ricoprire il ruolo di vicepresidente del Paese più potente del mondo, ebbene allora forse davvero tutto è possibile, se si ha il coraggio e la costanza di combattere per ciò che è giusto.
Rula Jebreal ripercorre e racconta varie voci di donne che negli ultimi decenni hanno combattuto per i diritti e per la libertà, evidenziando anche le diversità che si sono viste da un paese all’altro.
Il #MeToo, per esempio – un movimento di corale denuncia contro un sistema oppressivo e discriminatorio, protetto dal mondo in cui l’uguaglianza esiste solo sulla carta… e a volte neanche lì – negli USA ha avuto un impatto enorme, ha causato licenziamenti di uomini abusanti, un mea culpa dello stesso sistema che quelle violenze aveva fino ad allora ignorato. Ma la globalizzazione non ha fatto in modo che questi effetti così stravolgenti si propagassero anche in Italia, dove il #MeToo è stato trattato giornalisticamente solo come un fenomeno di costume, non come evento storico. Si chiede Rula: “Possibile che gli italiani siano a tal punto virtuosi, eccezione pressoché unica nel panorama mondiale? Forse questa eccezione si spiega con il fatto che in Italia chi ha denunciato, unendosi al coro del #MeToo, è finita dentro un tritasassi umiliante, accusata di cercare visibilità o soldi, e poi lasciata sola ad affrontare un processo sfiancante svolto sui social, in tv, nelle colonne dei giornali?”
Perché in Italia l’unico effetto prodotto è stato quello di colpevolizzare le donne: “Se l’è cercata”, “È una mitomane”, “Ma se è vero, perché non l’ha detto prima?” Ma, chiedo io, qualcuno si domanda quale immenso coraggio – e quale immenso dolore - devono avere le donne per denunciare una violenza, un abuso, sapendo che le uniche ad essere giudicate saranno loro? E non l’uomo violento che si è sentito libero di usare a piacimento il corpo di una donna? Di umiliarla? Di denigrarla? Di ridurla a oggetto, privo di personalità, di intelligenza, di voce?
Perché torniamo sempre allo stesso punto: “Sii bella e stai zitta”. Questo è quello che la società in cui viviamo chiede alle donne. Finge di non farlo, dichiara l’eguaglianza e la pari dignità, ma in fondo – e neanche tanto in fondo – questo si aspetta.
E così accade che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, rimanga in piedi, perplessa, durante il ricevimento del presidente turco Erdogan, perché nella sala erano state disposte soltanto due sedie, destinate a uomini, per cui lei si è seduta a distanza su un divano. D’altra parte da un paese – la Turchia – che ha scelto di uscire dalla Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica – nota come Convenzione di Istanbul, amara ironia -, non è che ci si potesse aspettare rispetto per una donna che ricopre una delle più alte cariche politiche europee. Ma il punto che mi ha fatto riflettere è un altro: al posto di von der Leyen, un uomo resosi conto che per un disguido dell’organizzazione mancava la sua sedia accanto a quelle degli altri due “potenti”, avrebbe accettato di relegarsi a distanza? La risposta è no. Si sarebbe fatto portare una sedia. Perché il suo ego maschile non gli avrebbe consentito di accettare di essere sminuito, politicamente e personalmente. Perché è stato cresciuto nella convinzione – o, se preferite, nella consapevolezza – di valere di più.
Noi donne cresciamo invece con la percezione di dover occupare un ruolo secondario, subalterno, di dover stare un passo indietro, di accontentarci. Il portavoce della Commissione europea, Eric Mamer, ha riferito la sorpresa della presidente, precisando che ella ha voluto dare priorità alla sostanza piuttosto che alle questioni di protocollo e alle forme. Purtroppo, però, in certi contesti la forma diventa sostanza. E quello era uno di quei casi. “Tanto più una donna arriva in alto”, scrive Rula Jebreal, “tanto più evidenti e feroci sono le aggressioni. È una strategia preventiva per scoraggiare altre donne dall’accedere a luoghi e opportunità che sono storicamente considerati appannaggio maschile”.
Ed è per questo motivo che è stato meravigliosamente assordante ascoltare Kamala Harris ribattere “I’m speaking” all’interlocutore repubblicano Mike Pence, che nel confronto dell’anno scorso continuava ad interromperla. “I’m speaking!” Perché anche le donne hanno una voce. “È tempo di far parlare le donne”, scrive Rula.
Qualcosa si muove nella giusta direzione, ma è un cammino lungo e per niente scontato. I diritti raggiunti possono essere facilmente persi, se non prestiamo attenzione. L’abbiamo visto anche nel contesto della pandemia: le donne hanno dovuto domandare di essere incluse nelle task-force di esperti, nonostante siano state tre ricercatrici italiane ad isolare per prime il covid-19. Nonostante sia statisticamente notorio che le donne si laureano più degli uomini, in minor tempo, e con migliori voti.
L’obiettivo delle donne che, come Rula, denunciano le discriminazioni, non è favorire le donne sugli uomini – come gli uomini temono –, ma creare un mondo libero, in cui nessuno prevalga su nessuno, in cui ciascuno e ciascuna sia libero/a di esprimere sé stesso/a, di arrivare dove vuole, di costruire quello che vuole. Senza essere messa a tacere o relegata in disparte.
L’immensa giudice della Corte Suprema statunitense Ruth Bader Ginsburg riassumeva così: “Non chiedo favori per il mio sesso. Chiedo solo che smettano di calpestarci”!
E allora abbiamo bisogno di donne come Ruth, come Kamala, e come Rula, che, ciascuna con i propri mezzi, alzino la voce, anche per le donne la cui voce è stata messa a tacere. Perché, scrive ancora Rula: “anziché voci singole, anziché piccoli cori, saremo un’unica, grande, variopinta orchestra capace di cambiare la musica di un Paese. E poi del mondo intero”.
Il momento è adesso, perché se aspettiamo tempi migliori non arriveranno mai; ci sarà sempre qualcosa di più importante, di più prioritario rispetto ai diritti delle donne.
P.S. Visto che ero in libreria, e che difficilmente riesco a comprare solo un libro alla volta, ho portato a casa anche quello di Amanda Gorman, giovane poetessa americana intervenuta alla cerimonia d’insediamento di Joe Biden e Kamala Harris. Il suo discorso accende la speranza di un futuro migliore: “Sboccia, da noi liberata, la nuova aurora, Poiché c’è sempre luce, Se solo avremo il coraggio di vederla, Se solo avremo il coraggio di essere Luce”.
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