Domenica, 20/05/2018 - Una legge dello stato sulla interruzione volontaria di gravidanza, fortemente voluta dalle donne sulla spinta del neofemminismo, prese l'avvio dopo anni di un acceso dibattito durante il quale fu imposto all'agenda politica un drammatico vissuto femminile fino ad allora relegato nel privato ed esposto da un lato al rischio di morte, dall'altro alla galera. Sull'esperienza della maternità, della sessualità, dell'aborto l'Udi aveva avviato nel 1975 una consultazione che interessò trentamila donne in tutto il Paese - casalinghe, operaie, contadine, braccianti, impiegate, professioniste - e nel gennaio del '77 ne pubblicò i risultati con il titolo emblematico “Sesso amaro”: uno spaccato impressionante della vita sessuale e riproduttiva delle donne di allora.
Il movimento delle donne era in quegli anni diviso tra chi chiedeva la semplice depenalizzazione dell’aborto e chi, come l’Udi, da sempre impegnata nell’affermazione del valore sociale della maternità come libera scelta, credeva necessaria una assunzione di responsabilità da parte della collettività: le strutture sanitarie pubbliche dovevano garantire gratuitamente l’interruzione volontaria di gravidanza e i consultori dovevano assicurarne la prevenzione attraverso una efficace educazione sessuale e sanitaria. La legge recepì queste istanze, ma consentì l’obiezione di coscienza anche se circoscritta al solo personale, la struttura era tenuta in ogni modo ad assicurare gli interventi. In questi 40 anni la 194 ha avuto un percorso in salita soprattutto per il ricorso massiccio alla obiezione di coscienza; le donne non hanno mai smesso di lottare per la sua corretta e completa applicazione e si sono attivate ovunque per il funzionamento e potenziamento dei consultori, presidi socio-sanitari purtroppo in gran parte svuotati della loro radicalità e funzione. Occorre però riconoscere che nonostante le tante inadempienze delle istituzioni e dei presidi sanitari, il ruolo loro assegnato dalla legge ha comunque salvato dalla morte o da situazioni invalidanti tantissime donne, non più costrette all’aborto clandestino.
La sola depenalizzazione avrebbe certamente tenuto lontana la pratica abortiva dal controllo dello stato e garantito la donna dal rischio di galera, ma avrebbe lasciato sulle sue spalle il costo dell’intervento e non ci sarebbe stata nessuna responsabilità per le strutture pubbliche.
Tutto questo avrebbe senza dubbio lasciato ancora troppe donne nelle mani di persone inesperte, in condizioni igienico-sanitarie precarie, esposte al rischio di morte, così come accadeva e ancora a volte accade quando si è costrette a ricorrere all’aborto clandestino. Resta faticoso il cammino verso una nuova civiltà che metta al centro il potere femminile di generare, la libertà di scelta nella procreazione come valori alla base dell’esistenza umana, in una società capace di accoglierli e garantirli.
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