L’eredità di Gandhi antidoto alla rabbia. La strategia della non violenza nasconde una profonda sapienza di psicologia sociale
Giovedi, 01/02/2018 - Settant’anni fa, il 30 gennaio 1948, Gandhi fu ucciso dall’estremista hindu Nathuram Godse. Un Memoriale, eretto nel luogo stesso dell’assassinio, ricorda la ‘Grande Anima’,l’uomo che – secondo Albert Einstein – le generazioni future avrebbero faticato a credere che fosse mai esistito. Ma cosa rimane, oggi, del suo insegnamento, nella più grande democrazia del mondo, in cui l’ostilità religiosa alla quale il Mahtma contrapponeva l’ahimsa, il principio della non violenza, resta ancora sotto traccia? E, soprattutto, come è stato inteso il significato della non-violenza? Malgrado la particella negativa, si tratta – per Gandhi – della “più grande e più attiva forza del mondo”. Perché allora è stata sovente definita come resistenza passiva e accettazione della sofferenza? L’enfasi sulla spiritualità della rassegnazione trascura, in effetti, un elemento fondamentale della visione gandhiana: la sua distinzione tra violenza del forte, del debole e del codardo. La prima poggia sul rifiuto morale della violenza e richiede la presenza di tutte quelle virtù – coraggio, abnegazione, autodisciplina – che sono proprie del guerriero. La seconda è la cosiddetta resistenza passiva, una scelta tattica adottata da chi ritiene, per ragioni politiche, che l’impiego della violenza non sia funzionale ai suoi obiettivi. La terza, infine, è l’atteggiamento di chi si astiene dalla violenza per pura vigliaccheria: è quest’ultima la posizione che Gandhi condanna più aspramente arrivando addirittura a scrivere di preferire la violenza alla codarda sottomissione. E, tuttavia, il modo in cui è stata recepita in Occidente l’opera gandhiana ha rafforzato l’idea che la non violenza non possa essere che un ideale morale e non un metodo di azione. Gandhi è stato spesso presentato come un mistico che invita alla conversione piuttosto che come un uomo politico intento a delineare una strategia efficace. Certo, la sua è una figura molto complessa (Nehru stesso lo definiva “uno straordinario paradosso”) a partire dalla sua ferma convinzione che nella sfera politica si possa essere efficaci senza rinunciare ai principi etici. Basti riflettere a come le stesse condizioni di lotta del satyagraha ( “la forza della verità”) - astensione dall’uso e dalla minaccia della violenza; impegno costante di attenersi alla verità; esigenza di imparzialità; formulazione di obiettivi precisi--rappresentino un sovvertimento radicale delle regole tradizionali del gioco politico. Ma esse, - occorre aggiungere - oltre a testimoniare una straordinaria tensione etica, manifestano una profonda sapienza in fatto di psicologia sociale in quanto mirano a controllare e a ridurre la violenza dell’oppositore: la menzogna, la distorsione, la clandestinità sono tutti elementi che ingenerano sospetto e paura, rendendo quindi più probabile il suo ricorso alla violenza. In tal senso, la non violenza si iscrive in un gioco di forze e, in quanto alternativa costruttiva all’estinzione reciproca, può rappresentare una forma efficace di soluzione dei conflitti sociali e politici.
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